Precari e competitività | | |
Scritto da Davide Giacalone | |
sabato 06 novembre 2010 | |
Sottoscrivo il ragionamento di Draghi: l’Italia perde competitività da molti anni e continua farlo, rinunciare alla ricchezza dell’esperienza maturata nel lavoro aggrava i problemi. Giusto, ma proporre la graduale stabilizzazione dei precari induce più confusione che ragionevole speranza. E’ vero che negli anni pre-crisi l’occupazione con contratti a tempo parziale e/o determinato è cresciuta, in Italia, più che in altri Paesi europei, ma ciò si deve all’arretratezza della legislazione precedente, che soffocava questo genere di rapporti, e alla lungimiranza della legge Biagi. Ed è vero che espellere quei lavoratori, sotto la pressione della crisi, significa bruciare esperienza e creare loro seri problemi, ma proporre la stabilizzazione senza aggiungere che deve accompagnarsi con una revisione complessiva del mercato del lavoro equivale a promettere pane e felicità per tutti. Un sotterfugio da comizianti, più che una ponderata riflessione da economisti. Non si può chiedere più elasticità e più sicurezza per tutti. Siccome non è saggio difendere un sistema che produce perdite di competitività è meglio proporre più meritocrazia e più mobilità. Avendo cura, per onestà, d’aggiungere: in entrata e in uscita. Tra il 1998 e il 2008, nel settore privato, il costo del lavoro per unità di prodotto è cresciuto del 24% in Italia e del 15% in Francia, mentre è diminuito in Germania. Sono dati della Banca d’Italia. Se stabilizzassimo i precari, senza adottare altre misure compensative, non faremmo che aumentare il divario. E’ verissimo (quante volte lo abbiamo scritto!) che la mobilità sociale è scandalosamente bassa e che l’istruzione non produce promozione dei migliori. Ha fatto bene Draghi a ripeterlo. Ma non si rimedia dando più soldi e più carriera ai laureati, altrimenti assesteremmo ulteriori mazzate alla produttività, si agisce cancellando il valore legale del titolo di studio e sbaraccando un sistema dell’istruzione che garantisce successo a chi ci lavora, non a chi ci studia. La verità, insomma, va detta tutta. Altrimenti si prendono solo applausi, tanto scroscianti quanto inutili e conservatori. A noi non può che fare piacere sapere che la Fiat intende restare e crescere in Italia. Evviva. Ma è stato Marchionne ad andare in televisione e raccontare che nel nostro Paese non fa un solo centesimo di utile. Allora, escluso che voglia candidarsi a protagonista di una parabola evangelica, escluso anche che sappia come moltiplicare i pani e i pesci, è chiaro che si tengono aperti gli stabilimenti produttivi e si chiudono quelli che appesantiscono i conti, e se, invece, si fa il contrario, allora si ha il dovere di raccontarla tutta. Perché Marchionne sostiene la prima tesi ospite della Rai e la seconda ospite del governo? Ecco la risposta: perché se vuoi chiudere uno stabilimento in Spagna o in Svezia ne paghi il costo sociale, se lo vuoi chiudere in Italia si apre un dibattito politico, non scuci un tallero e puoi anche mettere becco sulla scelta di chi prende il tuo posto. A me sta benissimo che le imprese abbiano come finalità il profitto, mentre trovo sospetti i discorsi filantropici (è socialmente utile la ricerca del profitto, è politicamente costosa la bontà in conto a terzi). Se Marchionne s’attiene alle regole del mercato ha la nostra ammirazione, se, invece, deroga da quelle e trae vantaggi dal nostro sistema detestabilmente consociativo e inciucistico, allora se ne assuma le responsabilità ed eviti toni stonatamene patriottici. I discorsi di Draghi e Marchionne non hanno nulla in comune, se non la possibilità d’essere pronunciati senza che alcun protagonista politico sia in grado d’alzarsi e contestare agli oratori le loro mancanze e incoerenze. Non è colpa loro se la nostra è divenuta una politica minuscola, le cause sono più profonde e meno contingenti. Ma credo sia utile avvertire che nelle mezze verità c’è poco di maiuscolo. E quel che c’è non è ammirevole. |
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