Riportiamo da LIBERO l'articolo di Andrea Morigi dal titolo "Quando Israele si riprendeva gli ostaggi".


Simon Dunstan, Il Raid di Entebbe (Libreria editrice Goriziana), Yonathan Netanyahu
La mezz’ora più lunga della storia va sotto il nome in codice di “Operazione Thunderbolt”. Ma nella storia militare è nota come Il raid di Entebbe. Luglio 1976, titolo del volume scritto dall’inglese Simon Dunstan (Libreria Editrice Goriziana, pp. 120, euro 15). L’impresa fu portata a termine dalle teste di cuoio israeliane del Sayeret Matkal e dai paracadutisti del Sayeret Tzanhanim il 3 luglio di 35 anni fa in Uganda, per liberare un centinaio di persone tenute in ostaggio da terroristi palestinesi e tedeschi in un terminal dell’aero - porto di Entebbe.
LE FASI DELL’AZIONE
È un resoconto giorno per giorno della crisi, che si accompagna alla descrizione delle varie opzioni prese in esame dai militari israeliani, a cui fa seguito la narrazione del raid, a partire dal volo degli Hercules C130 con la Stella di David attraverso l’Africa, passando per le fasi del combattimento-lampo contro rapitori arabi e guardie ugandesi, fino all’evacuazione per via aerea e al ritorno trionfale in Israele. A rendere più viva la ricostruzione, che si avvale anche di numerose fotografie dell’epoca, contribuiscono alcune mappe del terreno su cui si svolse l’as - salto. Se ne ricava una sorta di versione 3D notturna della scena, che induce il lettore a concentrarsi sul dettaglio dell’azio - ne. È in quei movimenti precisi dei commandos, indicati con vettori di diverso colore, che si riesce a comprendere il livello di preparazione tattica messo a punto dai comandi dell’Israel Defense Force e autorizzato in pochi giorni dal governo di Gerusalemme. Nulla fu lasciato al caso, benché si dovesse intervenire al più presto, prima dell’uc - cisione degli ostaggi. Non furono trascurate nemmeno le ripercussioni politiche e internazionali del gesto. Da allora, sebbene non furono certo fermate le stragi dei terroristi palestinesi, molti abbandonarono l’idea di colpire Israele. Per lo Stato ebraico la vittoria militare contro il Fronte per la Liberazione della Palestina e l’Uganda di Idi Amin Dada si tramutò in un successo politico. La guerra dello Yom Kippur del 1973, gli attacchi ripetuti dei palestinesi contro i civili israeliani avevano depresso il morale collettivo della popolazione. Nello spazio di una notte i cittadini israeliani passarono, dalla litigiosità che li divideva politicamente, a un ritrovato senso di unità nazionale. Nell’occasione nemici storici come Ytzhak Rabin e Menahem Begin si abbracciarono.
NESSUN CEDIMENTO
Tra gli eroi di quella notte, cadde in battaglia Yonatan Netanyahu, fratello di Benjamin, l’attuale premier israeliano. “Thunderbolt”, in suo onore, fu ribattezzata “Operazione Yonatan”. Vi furono altre perdite umane, sia fra i militari che fra i civili, durante il combattimento. Sebbene doloroso, non fu evitabile. E fu considerato un sacrificio necessario a salvare non solo le vite degli ostaggi di Entebbe, ma anche a evitare in prospettiva altre aggressioni contro obiettivi ebraici. Tuttavia all’epoca non si affacciò mai, nemmeno per un attimo, l’ipotesi di un cedimento alle richieste dei terroristi (fra i quali c’erano anche due comunisti tedeschi delle Revolutionäre Zellen) che pretendevano la liberazione di 40 palestinesi detenuti in Israele e di altri 13 loro compagni che si trovavano allora in carcere in Kenya, Francia, Svizzera e Germania. Altrimenti, ogni ebreo sul pianeta sarebbe divenuto l’obiettivo di violenze e ricatti.
IL CASO SHALIT
A oltre tre decenni di distanza, anche a Gerusalemme, sono cambiate le proporzioni del calcolo politico e l’intensità delle pressioni internazionali. Poco più di un mese fa, per ottenere la liberazione del proprio caporale Gilad Shalit, rapito dai terroristi di Hamas nel giugno del 2006, il governo di Israele ha trattato, fino ad accettare di scarcerare 477 pericolosi detenuti palestinesi. Nella società ebraica, così come nel mondo occidentale che le è vicino, l’entità della contropartita è stata giudicata con più di una perplessità. Si è aperto un lungo dibattito, non ancora concluso, sull’opportunità di porre a rischio, attraverso la liberazione di centinaia di potenziali terroristi palestinesi, la vita di persone innocenti.
UN’ALTRA OCCASIONE
Non è difficile tuttavia individuare altre analogie fra la situazione del 1976 e quella odierna. Attualmente, dopo le campagne in Libano e a Gaza, senza contare l’incursione a bordo dell’imbarcazione pacifista-terrorista Navi Marmara, il passato splendore di Tsahal e delle sue forze speciali sembra un ricordo un po’ opaco. Forse manca soltanto l’impresa epica in grado di riportare in superficie il valore, il coraggio e la forza di uno dei migliori eserciti al mondo. Se e quando si ripresenterà l’occasione appropriata per dimostrarlo, Israele dovrà approfittarne.
 |
Operazione Entebbe
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
L'
Operazione Entebbe delle Forze armate israeliane ebbe luogo nella notte tra il
3 luglio ed il
4 luglio 1976, nell'
aeroporto dell'omonima città ugandese.
I militari che la pianificarono e la condussero le diedero il nome di
"Operation Thunderbolt". In onore del colonnello
Yonatan Netanyahu, che comandò il raid e fu l'unico militare israeliano a perdere la vita nell'azione, venne in seguito denominata anche
"Operation Yonatan".
Il dirottamento
Alle 12.30 del
27 giugno 1976, il volo 139 dell'
Air France, un aereo
Airbus A300 proveniente da
Tel Aviv, decollò dall'aeroporto di
Atene diretto a
Parigi, con a bordo 244 passeggeri e 12 persone di equipaggio. Poco dopo, il volo venne dirottato da quattro
terroristi. I dirottatori, due
palestinesi appartenenti al
Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) e due
tedeschi aderenti alle
Revolutionäre Zellen, ordinarono di far rotta su
Bengasi, in
Libia. Qui l'aereo rimase a terra per sette ore, durante le quali venne rifornito e fu rilasciata una donna. In seguito l'Airbus decollò nuovamente, per dirigersi verso
Entebbe, in
Uganda. Il commando, infatti, fu appoggiato dal governo del dittatore ugandese
Idi Amin che simpatizzava per la causa palestinese. Originariamente, Amin era stato sostenuto da molti Governi occidentali, Israele compreso. Le relazioni diplomatiche tuttavia degenerarono allorché il Governo di Israele rifiutò ad Amin l'acquisto di velivoli di combattimento che sarebbero serviti per attaccare la
Tanzania. Fu così che Amin ruppe le relazioni con Israele e abbracciò la causa dell'
OLP. L’aereo atterrò ad Entebbe alle 03:15 del
28 giugno.
Ai dirottatori si aggiunsero ben presto altri tre terroristi. Il gruppo, guidato da
Wilfred Böse (non da
Ilich Ramírez Sánchez, ossia "Carlos lo Sciacallo", come talvolta si sostiene), chiedeva la liberazione di 40 palestinesi detenuti in Israele, oltre a quella di altri 13 che si trovavano nelle prigioni di
Kenya,
Francia,
Svizzera e
Germania.
I dirottatori rilasciarono la maggior parte degli ostaggi, trattenendo solo i cittadini israeliani e gli ebrei, che minacciavano di uccidere se le loro richieste non fossero state accolte. Il capitano del volo,
Michel Bacos, fece notare ai terroristi che, dal momento che tutti i passeggeri erano sotto la sua responsabilità, non ne avrebbe abbandonato alcuno e sarebbe rimasto con gli ostaggi. Tutto l'equipaggio fu solidale con il capitano, rifiutando di partire con un altro aereo dell'Air France, giunto ad Entebbe per portare via gli ostaggi liberati. Anche una suora francese rifiutò di partire, insistendo che il suo posto doveva essere preso da un altro ostaggio, ma fu spinta a forza sull'aereo che attendeva i passeggeri liberati dai militari ugandesi. Gli ostaggi rimasti furono rinchiusi nel vecchio terminal dell'aeroporto.
Il Raid
Il governo di
Israele iniziò le trattative per il rilascio degli ostaggi, al contempo studiava anche altre possibili soluzioni come l'intervento armato. Ottenendo 3 giorni di proroga rispetto all'ultimatum imposto riuscì ad organizzare una missione di salvataggio degli ostaggi che dava buone possibilità di successo. Fu affidata ai
militari. Dopo diversi giorni dedicati alla raccolta di informazioni ed alla preparazione, il 4 luglio quattro aerei da trasporto
C-130 Hercules (detti in gergo
Ippopotami) dell'
Heyl Ha'Avir, l'Aeronautica militare israeliana, atterrarono di notte all'aeroporto di Entebbe, ovviamente senza l'aiuto della torre di controllo. L'avvicinamento degli aerei fu fatto sfruttando le capacità di volo a bassa quota unite alle capacità di atterraggio su brevi piste. L'avvicinamento avvenne a fari di navigazione spenti e sfiorando la superficie del lago Victoria. Un altro aereo militare israeliano, un jet attrezzato per il pronto soccorso medico, atterrava nel frattempo all'aeroporto di
Nairobi, in
Kenya, mentre un altro aereo attrezzato da centro di comando volante dirigeva l'operazione
[1]. Il governo keniota, avversario del regime ugandese, aveva infatti dato il suo appoggio all'operazione.
Erano impegnati nell'operazione oltre cento soldati delle
IDF (in gran parte elementi del reparto speciale
Sayeret Matkal) e, forse, diversi agenti del
Mossad.
Gli israeliani atterrarono alle 23.00 circa, con i portelli di carico già abbassati. Fu fatta scendere una
Mercedes nera, con due
Land Rover al seguito. L'automobile e le Land Rover dovevano simulare la visita dello stesso Amin, per distrarre l'attenzione degli ugandesi e dei terroristi dai militari che si stavano avvicinando al terminal. La Mercedes, originariamente di colore bianco, apparteneva ad un civile israeliano ed era stata riverniciata di nero per il raid, con il presupposto che sarebbe stata restituita al legittimo proprietario, ignaro dell'uso al quale era destinata, con il colore originale
[1] .
Mentre il convoglio si avvicinava, due sentinelle, che erano state avvertite del fatto che Amin aveva cambiato la sua Mercedes nera con una bianca, ordinarono alle auto di fermarsi e furono immediatamente uccise dagli israeliani.
Gli ugandesi furono ingannati dal diversivo israeliano e lasciarono che il finto corteo presidenziale si avvicinasse fino al terminal in cui erano rinchiusi i passeggeri e l’equipaggio del volo 139. Gli israeliani scesero dai mezzi ed irruppero nell’edificio, urlando agli ostaggi di stare giù. L’avvertimento fu fatto in
ebraico ed uno dei passeggeri, che forse non aveva compreso, si alzò, dirigendosi verso i militari appena entrati. Questi ultimi, pensando si trattasse di un terrorista, lo uccisero. La stessa sorte toccò ai tre dirottatori che, trovandosi nel salone, cercarono di resistere. Un soldato, sempre in ebraico, chiese ai passeggeri dove fossero gli altri terroristi. Gli ostaggi indicarono una porta, che gli israeliani sfondarono, lanciando varie granate flash bang e lacrimogeni. Entrati nella stanza, i militari freddarono altri tre dirottatori, seduti attorno ad un tavolo ed ancora tramortiti dalle esplosioni. Gli israeliani tornarono quindi agli aerei, su cui iniziarono ad imbarcare gli ostaggi liberati
[1].
Nel frattempo, diversi militari ugandesi, appostati nella vecchia torre di controllo adiacente al terminal, presero a sparare contro gli israeliani e gli ex ostaggi, in procinto di salire sui C-130. Gli israeliani interruppero l’imbarco e risposero immediatamente al fuoco con lanciarazzi, riuscendo quasi subito a neutralizzare gli uomini dell'esercito ugandese. Nel corso di quest’ultima sparatoria, due ostaggi furono colpiti a morte, così come
Yonatan Netanyahu, comandante israeliano sul campo e fratello del futuro leader del
Likud e primo ministro
Benjamin Netanyahu[1].
Prima di decollare, un altro gruppo di incursori distrusse con esplosivo i caccia ugandesi
MiG-21 che si trovavano sulla pista, per impedire ogni tentativo di inseguire gli Hercules, i quali, dopo una sosta tecnica a Nairobi, proseguirono il volo verso l’aeroporto di Tel Aviv
[1].
L’incursione durò solo una trentina di minuti. Sei dirottatori vennero uccisi. Dei 103 ostaggi, ne morirono tre, il primo ucciso per errore dagli israeliani, gli altri due colpiti dagli ugandesi durante lo scontro a fuoco prima dell’imbarco. Il colonnello Netanyahu fu l’unico morto israeliano, mentre un altro soldato, Sorin Hershko, rimase invalido per le ferite riportate
[1]. Il numero delle perdite ugandesi non è certo e varia secondo le fonti, da una dozzina fino a 45 circa. Si è sostenuto che gli israeliani durante l’operazione abbiano catturato alcuni terroristi, ma la notizia non ha ricevuto conferme.
Una passeggera settantacinquenne, Dora Bloch, durante il dirottamento si era sentita male e, al momento dell’attacco, si trovava ricoverata all’ospedale di
Kampala. Nei giorni successivi il suo letto fu trovato vuoto e nessuno seppe più nulla di lei
[1], fino al
1979, quando, caduto il regime di Amin a seguito della guerra contro la
Tanzania, vennero ritrovati i suoi resti. Nell’
aprile del
1987,
Henry Kyemba, all’epoca ministro della sanità ugandese, dichiarò alla Commissione dei Diritti Umani dell’Uganda che la Bloch era stata prelevata dal suo letto ed in seguito assassinata da due ufficiali dell’esercito che agirono per ordine di Amin.
Analisi
Uno dei fatti determinanti per il successo dell’incursione fu che il terminal in cui vennero rinchiusi gli ostaggi era stato costruito anni prima da un’impresa israeliana. Questa aveva conservato i progetti e li fornì sollecitamente ai militari, i quali, con l’aiuto di alcuni tecnici che avevano diretto i lavori, costruirono una replica esatta dell’edificio aeroportuale.
Negli
anni sessanta e
settanta, gli israeliani erano, infatti, molto impegnati nella cooperazione economica con i paesi dell’
Africa sub sahariana ed il regime di Amin, prima che quest’ultimo rovesciasse le alleanze, era stato un forte fruitore dell’assistenza tecnica fornita dallo stato ebraico.
Decisamente d’aiuto alla pianificazione del raid furono anche i ricordi degli ostaggi rilasciati, interrogati a Parigi dai servizi d’informazione israeliani, che fornirono importanti dettagli in merito, per esempio, all’interno dell’edificio, al numero ed all’organizzazione dei dirottatori, al coinvolgimento delle truppe ugandesi.
I preparativi israeliani vennero condotti nella più stretta riservatezza. Ad esempio, gli operai civili che realizzarono la replica del terminal assieme ai militari, “rimasero ospiti” di questi ultimi fino ad operazione conclusa.
Prima di ordinare l’attacco, il governo israeliano effettuò diversi tentativi diplomatici per portare a casa gli ostaggi senza giungere ad una soluzione di forza. Molte fonti indicano che gli israeliani sarebbero stati disposti anche a rilasciare i prigionieri, nel caso l’opzione militare si fosse rivelata impraticabile. Un generale in pensione delle
IDF,
Chaim Bar-Lev, che conosceva personalmente il dittatore ugandese, ebbe con lui diverse conversazioni telefoniche, senza raggiungere alcun risultato
[1].
Ulteriori sviluppi
Il governo dell’Uganda chiese che fosse convocato il
Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite, per condannare il raid israeliano, in quanto violazione della sovranità ugandese. Il Consiglio di Sicurezza non approvò alcuna risoluzione.
Per essersi rifiutato di abbandonare i passeggeri rimasti in ostaggio, il capitano Bacos ricevette una nota di biasimo dai suoi superiori e fu sospeso dal servizio per un periodo. Tuttavia, egli ricevette nello stesso anno la
Legion d'Onore dal Presidente
Giscard d'Estaing e in seguito un'onorificienza da parte dell'Organizzazione ebraica
B'nai B'rith. Tutti i membri dell'equipaggio dell'aeromobile ricevettero inoltre un'onorificienza da parte dello Stato di Israele.
Film su Entebbe
I fatti di Entebbe diventarono materia d’ispirazione per tre film, due
statunitensi ed uno
israeliano.
Note
Stevenson, William. "90 minuti ad Entebbe", Sonzogno Editore, 1976
Collegamenti esterni