guerra all'italico declino

FEDERALISMO; necessità italica di DITTATURA CORRETTIVA a tempo determinato per eliminazione corruzione, storture e mafie; GIUSTIZIA punitiva e certezza della pena; LIBERISMO nel mercato; RICERCA/SVILUPPO INNOVAZIONE contro la inutile stabilità che è solo immobilismo; MERCATO DEL LAVORO LIBERO e basato su Meritocrazia e Produttività; Difesa dei Valori di LIBERTA', ANTIDOGMATISMO, LAICITA' ;ISRAELE nella UE come primo baluardo di LIBERTA'dalle invasioni. CULTURA ED ARTE come stimolo di creatività e idee; ITALIAN FACTOR per fare dell'ITALIA un BRAND favolosamente vincente. RISPETTO DELLE REGOLE E SENSO CIVICO DA INSEGNARE ED IMPORRE

venerdì 12 novembre 2010

Ci vorrebbe IL PVV

Geert Wilders e la confusione dei media

A seguito dei recenti successi elettorali, da qualche tempo anche in Italia i mass media cominciano a parlare del partito Olandese PVV, fondato da Geert Wilders.
L'acronimo olandese PVV sta per "Partito delle Libertà", un nome che ricorda il Popolo delle Libertà di Berlusconi.
Proprio come il PdL, il PVV è un partito di Destra, molto critico nei confronti del relativismo culturale e dell'egualitarismo della Sinistra.
Inoltre, il PVV è il terzo partito in Olanda, un po' come la nostra Lega Nord e, proprio come la Lega, ha posizioni dure nei confronti dell'immigrazione, in particolare quella proveniente dai Paesi islamici.
Infine, proprio come il Centrodestra italiano, non gradisce di essere accostato ai partiti che si ispirano alla destra sociale, quella di matrice fascista.
Un'analisi superficiale, quindi, consegna il PVV alla categoria "partiti xenofobi e populisti della nuova destra demagogica" a cui appartengono molte delle recenti formazioni politiche europee.

Eppure, a guardare meglio, il partito di Geert Wilders è invece una novità nello scenario politico europeo, ed ha davvero molto poco a che spartire con il Centrodestra italiano.

Geert Wilders, che si è rapidamente guadagnato soprannomi come "Mozart" e "Capitan Perossido" per via della zazzera ossigenata -- francamente ridicola -- è un ateo olandese, laico, libertario e, al tempo stesso, diffidente nei confronti di tutte le confessioni religiose e dei loro dogmi.

Da buon olandese, Wilders è orgoglioso della tolleranza e dell'apertura mentale che la società dei Paesi Bassi è in grado di esprimere, ritenendola un segno di civiltà.
L'Olanda che Wilders sogna è un paese ancora multietnico e multiculturale, in cui posasano trovare posto rispetto reciproco e diritti individuali.
Wilders, inoltre, si definisce un grande amico degli Ebrei e di Israele (ricambiato) ed è uno strenuo difensore dei diritti degli omosessuali e delle donne, la cui tutela e parità ritiene essere un elemento cardine di una società moderna ed un tratto distintivo della cultura Occidentale.

Siamo lontani anni luce dall'isolazionismo provinciale leghista, come anche dalle battaglie omofobe, antisemite ed a tutela della "razza" dei neofascisti; ci ritroviamo, invece, curiosamente vicini alle idee dei Radicali Italiani.

Ma allora perché la stampa italiana, tutte le volte che parla di Geert Wilders, si sente in dovere di etichettarlo come "xenofobo", "razzista" e leader di una formazione politica di "estrema destra"?

La ragione è semplice: il PVV è fortemente determinato a limitare il più possibile l'immigrazione dai Paesi islamici in Olanda ed è contrario al velo integrale, ed ad altre manifestazioni del fondamentalismo, come la segregazione e riduzione in stato di semi-schiavitù della donna.
Xenofobia?
Facciamo quelli con il cervello acceso. Prima di affibbiare etichette, sentiamo cosa dice il diretto interessato: il PVV sostiene che l'integralismo islamico sia incompatibile con la vita democratica e che rappresenti una forma di totalitarismo fascista che utilizza le libertà civili dell'Occidente allo scopo di distruggerlo.

In sostanza, Wilders ritiene che non sia possibile mantenere in piedi un sistema di regole democratiche che tutelino i diritti individuali, la libertà e l'uguaglianza di tutti i cittadini, specie delle categorie più deboli come gli omosessuali, i minori e le donne se -- al tempo stesso -- non ci si difende dalle forze contrarie, interne ed esterne, che puntano a minare ed a sovvertire quegli stessi diritti.

Più volte Wilders ha ribadito, ed altrettante volte le sue dichiarazioni sono state ignorate dagli organi di stampa, che la sua battaglia politica non riguarda tutti i musulmani, ma soltanto quelli che, per motivi religiosi, si rifiutano di integrarsi nel sistema di libertà e di diritti della persona delle società occidentali.

Quella di etichettare Wilders come xenofobo razzista di estrema destra appare più come la conseguenza dell'applicazione errata di vecchie categorie novecentesche da parte dei media ad un fenomeno politico nuovo del XXI Secolo, che coniuga laicismo, libertà individuali e diritti civili, ma nega l'egualitarismo culturale.

L'idea di Wilders, che solo in Olanda poteva trovare una realizzazione così compiuta, appare come un moto d'orgoglio del mondo occidentale, una voce che afferma con forza che la società democratica, libera e laica, con tutti i suoi difetti, è comunque quanto di meglio l'umanità abbia prodotto sinora, perché è la sola che assicura il rispetto dei diritti individuali e delle vocazioni personali di ognuno; una voce che ricorda che l'equilibrio democratico è, per propria natura, intrinsecamente instabile e che quindi necessita di essere continuamente riaffermato e tutelato da nemici interni ed esterni.

Ora, non so voi, ma quando leggo la notizia che in Olanda gruppi di giovani fanatici islamisti picchiano gli omosessuali per strada e che la Sinistra li difende(!), io mi domando se il mondo oggi sappia ancora cosa siano la Destra e la Sinistra; se queste due categorie abbiano ancora un significato, dopo la fine della guerra fredda, o se bisognerebbe quantomeno ridefinirle.

Io credo che uomini come Geert Wilders stiano provando a gettare le basi di un sistema di valori diverso, libero dagli steccati del passato.

Sono pienamente consapevole, ed immagino lo sia anche Wilders, che il passaggio è stretto e che il confine tra la tutela della laicità liberale come faro del mondo e la xenofobia becera della Lega Nord è molto labile.

Ma sono altrettanto convinto che, in questa fase storica di crisi di ideali, il tentativo sia doveroso e che il beneficio potrebbe essere grande per tutto l'Occidente e non solo.

martedì 9 novembre 2010

Crolla Il patrimonio artistico una nostra grande RISORSA

Per una singolare coincidenza, mentre era da poco crollata la Casa dei Gladiatori di Pompei, ignaro dell’evento, stavo visitando gli scavi di Ostia Antica, non impressionanti come quelli di Pompei ma di grande suggestione e importanza, poiché offrono l’immagine di una città commerciale dell’antica Roma. Mi chiedevo come fosse possibile una tariffa d'ingresso così irrisoria: 6,50 euro, ridotti a 3,25 o a zero per numerose categorie. In cinque abbiamo pagato 6,50 euro. Somme (...)
(...) simili non coprono il costo necessario a riscuoterle. Non sarebbe possibile pretendere molto di più e abolire certe assurde facilitazioni? Ma certo che sarebbe possibile. Figuriamoci se un turista, una volta venuto in Italia, si tirerebbe indietro di fronte a una spesa un po’ più consistente!
E poi, perché mai nei musei esteri sono presenti negozi che offrono una profusione di oggetti e gadget fantasiosi e anche di qualità, mentre i nostri non vanno oltre una misera offerta di cartoline, matite o T-shirt? La fantasia non arriva neppure a mettere in vendita puzzle dei mosaici, costruzioni dei monumenti per bambini o riproduzioni dei dipinti. All’estero, sfruttano come limoni i quattro zeppi che possiedono, mentre noi, che rigurgitiamo di beni culturali, li esibiamo sciattamente, con la testa girata dall’altra parte, come se la conservazione di questo immenso patrimonio fosse un'incombenza fastidiosa, una condanna; e il suo sfruttamento fosse da lasciare in mano all’esercito dei ciceroni fasulli, dei camion di paninari e dei borseggiatori.
Sappiamo bene che anche una gestione oculata di tariffe e negozi servirebbe al più a coprire le spese del personale. Servono investimenti rilevanti, rilevantissimi. Ma come si fa a non capire che questa è la risorsa che rende l’Italia unica al mondo? Pare che sia falsa la notizia che qualcuno nel governo abbia detto che la cultura non si mangia. Meno male, perché pur lasciando da parte la volgarità di una simile espressione, sarebbe stupefacente che non si capisca quale immenso valore economico rappresenta il patrimonio culturale italiano.
Sia ben chiaro. Se vogliamo parlare il linguaggio della verità va detto che su questo tema può scagliare la prima pietra soltanto chi è senza peccati, cioè quasi nessuno. È indubbio che il governo e la maggioranza abbiano le loro colpe. Se il rigore finanziario si esercitasse in modo uniforme su tutti i fronti non vi sarebbe niente da dire. Ma non è così. Gli esempi sono tanti. Basti dire che non si può da un lato combattere il fenomeno dei falsi invalidi e poi approvare leggi che rischiano di estendere in modo sterminato la platea dei falsi disabili.
Certamente le finanze del nostro Paese sono in bilico e il rigore è indispensabile in presenza di una crisi strutturale profonda che purtroppo non è ancora alle spalle. Ma questo è un Paese in cui, pur mettendo da parte l’evasione fiscale, si sperperano risorse in modo indecente. Nel nome della "cultura" scorrono torrenti di quattrini da ogni lato. Non c’è ente locale che non abbia la sua sagra letteraria, scientifica, filosofica, che non promuova un premio letterario, che non organizzi convegni sugli argomenti più inattesi. Tutto questo mobilita un’enorme quantità di risorse, per produrre spesso poco o niente di valido. Provate a constatare lo stupore con cui uno straniero accoglie la descrizione della mole incredibile di iniziative "culturali" che pullulano in ogni angolo del Bel Paese. Basterebbero le spese necessarie a sostenere un certo numero di queste iniziative per dare ossigeno alle nostre disastrate Biblioteche nazionali. Un minimo senso di responsabilità dovrebbe indurre gli enti locali a fare a gara nel dirottare i fondi impiegati nelle iniziative "culturali" effimere verso il compito di salvare un inestimabile patrimonio archeologico, artistico, architettonico, museale, culturale; invitando gli sponsor privati che intervengono in quelle iniziative a fare altrettanto. E, se tale senso di responsabilità non vi fosse, bisognerebbe esplorare tutte le vie per costringere a comportamenti virtuosi, come si richiede in circostanze di emergenza.
Purtroppo, in barba alla verità che "nessuno può scagliare la prima pietra", stiamo assistendo alla solita sagra dell’ipocrisia nazionale. Difatti, se il governo non brilla per sensibilità nei confronti della cultura, chi lo attacca dall’opposizione fa la parte del bue che dà del cornuto all’asino. Chi, se non quasi tutte le amministrazioni locali di sinistra (ispirandosi all’ideologia della cultura dell’effimero), ha finanziato per anni lautamente feste su feste, festival su festival, le iniziative più fasulle, spesso appaltate a dilettanti il cui unico merito era quello di essere "amici", mentre i marciapiedi dei centri storici andavano in pezzi e i monumenti si ricoprivano di immondizia e di graffiti? L’ex sindaco di Roma Veltroni, invece di gridare allo scandalo, dovrebbe fare autocritica per aver favorito la cultura dell’effimero, mettendosi in gara con Venezia per duplicare il festival del cinema, invece di impegnarsi esclusivamente sul fronte del patrimonio archeologico, artistico e culturale della capitale.
Il crollo della Casa dei Gladiatori di Pompei è frutto di un disastro che ha premesse lontane, è l’esito di un disinteresse scandaloso di cui tutti, nessuno escluso, dovrebbero fare ammenda e per il quale dovrebbero cospargersi il capo di cenere. Invece, si preferisce imbastire la sagra dell’ipocrisia e della strumentalizzazione politica e non mettere il dito sulla vera piaga: la necessità di cessare una volta per tutte di sparlarsi addosso dalla mattina alla sera di "cultura" in termini metodologici, ludici o spettacolari, mentre i fondamenti materiali della cultura - monumenti, musei, scavi, biblioteche, archivi - si sgretolano.
Si tratta nientemeno che dei fondamenti della nostra civiltà, quelli che danno senso alla nostra identità storica. Ma sono sempre meno coloro che nutrono interesse per questi fondamenti. Siamo sempre più nelle mani di persone la cui sensibilità culturale è prossima allo zero. In fondo, è la stessa situazione che si verifica con l’istruzione. La prima preoccupazione non dovrebbe essere quella di plasmare la formazione dei giovani su quei valori e su quei contenuti culturali che sono il fondamento della nostra civiltà? Invece siamo sotto la ferula di personaggi che predicano che non deve contare nulla "cosa" si pensa, bensì soltanto "come" si pensa. In tal modo, il "cosa", ovvero la cultura propriamente detta, va a pezzi come la Casa dei Gladiatori.
Perciò, con tutto il rispetto per i manager e il loro ausilio indispensabile, non bastano i tecnicismi. Il patrimonio culturale non si salva con il modello Asl o consegnando tutto ai privati. Occorre una presa di coscienza nazionale e una grande spinta morale per salvare ciò che rappresenta la nostra principale e unica ricchezza. Purtroppo, c’è seriamente da temere che nutrire la speranza di una simile presa di coscienza sia una grande ingenuità.
(Tratto da Il Giornale)

lunedì 8 novembre 2010

Tra giovani mignotte e scavi, tra giudici d'assalto e indignazione gay..

All'armi son sfascisti. I marò del Partito democratico, le truppe terrestri di Di Pietro, i siluratori subacquei di Fini, la flottiglia aerea dei pm, più i carri armati dei poteri forti, sono partiti per colpire in terra, in cielo e in mare Berlusconi, il suo governo e la maggioranza dell'Italia che lo sostiene. Non hanno un progetto comune e nemmeno progetti separati, ma un solo desiderio: sfasciare Berlusconi e il suo governo. Per la causa, ogni scusa è buona: giovani mignotte, scavi di Pompei, giudici d'assalto e gay indignati. Diventato ormai l'umbria di se stesso, un Fini inacidito compie lo storico strappo di Perugia, terra del suo precursore Gaucci. Gli fa eco un Bersani travestito da magazziniere delle Coop, con le maniche rimboccate come esige il copione della fiction di partito, che mobilita la piazza contro Berlusconi. La mattanza è fissata prima di Natale, l'11 dicembre. Ma dal suo partito, gli sfascisti più coerenti vogliono approfittare dello sfascio per rottamare pure lui, il Lenin del tortello.
Insomma è tutto un fervore di buoni propositi da garage di Avetrana: chi vuole stringere alla gola di Berlusca una corda e chi una cinta, e chi vorrebbe approfittarne per seviziarlo. Non è bello vivere questo autunno italiano, scansare pugnali e veleni, respirare aria fetida e alluvioni, crolli e immondizie. Ormai si sono scavati fossati incolmabili, non ci sono più spazi di dialogo e di trattativa, non ci sono più punti in comune tra le forze in campo, eccetto uno. Sì, c'è un punto, un solo punto in comune tra i governativi e gli sfascisti, tra Berlusconi, Fini, Bersani, i poteri forti e la bella stampa: è l'invocazione di un santino miracoloso, un ragazzo di Bologna che fu adottato da una famiglia di palazzinari romani. Parlo di San Pierferdinando decollato, al secolo Casini, Unico Democristiano Corteggiato (in sigla Udc).
Tutti, da sinistra a destra, invocano il ragazzo della Provvidenza. Perfino Berlusconi e Fini pur vivendo ormai agli antipodi e dicendo ormai sempre e solo cose opposte, arrivano sorprendentemente alla stessa conclusione: per uscire dalla crisi ci vuole Casini. Berlusconi dice: dai, Casini vieni con noi e subito dopo Fini dice: per svoltare nel Paese ci vuole Casini al governo. Vi dico nel dettaglio la sequenza del ragionamento di Fini: Berlusconi vai a casa, poi fai un altro governo, un Berlusconi bis. E quale sarebbe la differenza tra il primo e il secondo governo? L'innesto di Casini, appunto.
Ma che avrà di così miracoloso questo Pierferdinando? Quali doti nascoste, quali virtù sfuggite agli italiani lo rendono oggi il Messia? Nessuna in particolare. Casini ha solo una fortuna: ha aperto un negozietto in pieno centro, anzi per la precisione occupa un sottano nel Palazzo che fu della Dc. La collocazione strategica di quel piccolo locale lo rende assai appetibile e prezioso per tutti. È vero che a volte il ragazzo di Bologna è solo un alibi, un modo per non dire che vogliono apertamente lo sfascio o le urne. Ma è vero che quel piccolo locale basterebbe a Berlusconi per governare; e dall'altra parte darebbe qualche margine d'azione a Fini, a Bersani, a Montezemolo, a Rutelli. Senza citarlo, anche il guru del Censis De Rita lo invocava ieri dalle colonne del Corriere della Sera a guidare una coalizione di colombe; ma anche il falco Maurizio Belpietro lo suggerisce a Berlusconi come suo successore.
Eccolo, il ragazzo della Provvidenza, devoto alla Madonna di San Luca, che fece le scuole elementari da Forlani, poi le medie da Berlusca che lo nominò capoclasse alla Camera, ma andò nel frattempo a lezioni private dai Caltagirone. Ora che si è messo in proprio, viene tirato da tutte le parti, da sinistra, da destra, dal centro, dalla periferia, dalla Chiesa e dalla Confindustria. Si scelse come aiutante per i lavori ingrati il faccendiere politico Cesa e come cappellano don Rocco Buttiglione. Senza aver fatto nulla di significativo è diventato il centro dell'universo politico italiano, il sole del sistema planetario dei partiti. Per nessuno Casini è il Nemico o il Male, ma per tutti o per tanti è il Ripiego.
Come Fini, anche lui è un politico di professione, cominciò nella Dc dalla prima comunione e da allora non smise più. Però è più accorto e meno astioso di Fini, fa i matrimoni giusti e non ha mai rinnegato le sue origini. E non ha mai tradito Berlusconi ma lo ha lasciato quando erano all'opposizione: sì, lo ha tormentato ai tempi dell'altro governo, ma non si è mai sfilato dalla maggioranza quando diventò presidente della Camera, non mise in ginocchio il governo. E poi, se permettete, fa più simpatia di Fini, non ha cognati invadenti e non gioca sui valori politici e immobiliari. Ha quell'aria da chierichetto discolo, che fa qualche marachella, scansa qualche scapaccione dal parroco ma nessuno lo vorrebbe cacciare dalla Chiesa. Così l'Italia è finita ai piedi di Casini. Madonna di San Luca, come ci siamo ridotti.

sabato 6 novembre 2010

Precari e competitività Stampa E-mail
Scritto da Davide Giacalone   
sabato 06 novembre 2010
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Quello di Mario Draghi (si devono stabilizzare i precari) è un programma politico. Quella di Sergio Marchionne (rafforzeremo la presenza Fiat in Italia) è una decisione politica. Lo scrivo senza alcun intento polemico. Anzi, se la politica viene meno ai propri doveri, di governare il presente avendo in mente un’idea di futuro, è bene che altri protagonisti si facciano avanti. Ma chi fa politica deve accettare le regole del contraddittorio politico, evitando di contrarre il difetto dei politicanti: aggirare i problemi con mezze verità.
Sottoscrivo il ragionamento di Draghi: l’Italia perde competitività da molti anni e continua farlo, rinunciare alla ricchezza dell’esperienza maturata nel lavoro aggrava i problemi. Giusto, ma proporre la graduale stabilizzazione dei precari induce più confusione che ragionevole speranza. E’ vero che negli anni pre-crisi l’occupazione con contratti a tempo parziale e/o determinato è cresciuta, in Italia, più che in altri Paesi europei, ma ciò si deve all’arretratezza della legislazione precedente, che soffocava questo genere di rapporti, e alla lungimiranza della legge Biagi. Ed è vero che espellere quei lavoratori, sotto la pressione della crisi, significa bruciare esperienza e creare loro seri problemi, ma proporre la stabilizzazione senza aggiungere che deve accompagnarsi con una revisione complessiva del mercato del lavoro equivale a promettere pane e felicità per tutti. Un sotterfugio da comizianti, più che una ponderata riflessione da economisti. Non si può chiedere più elasticità e più sicurezza per tutti. Siccome non è saggio difendere un sistema che produce perdite di competitività è meglio proporre più meritocrazia e più mobilità. Avendo cura, per onestà, d’aggiungere: in entrata e in uscita.
Tra il 1998 e il 2008, nel settore privato, il costo del lavoro per unità di prodotto è cresciuto del 24% in Italia e del 15% in Francia, mentre è diminuito in Germania. Sono dati della Banca d’Italia. Se stabilizzassimo i precari, senza adottare altre misure compensative, non faremmo che aumentare il divario. E’ verissimo (quante volte lo abbiamo scritto!) che la mobilità sociale è scandalosamente bassa e che l’istruzione non produce promozione dei migliori. Ha fatto bene Draghi a ripeterlo. Ma non si rimedia dando più soldi e più carriera ai laureati, altrimenti assesteremmo ulteriori mazzate alla produttività, si agisce cancellando il valore legale del titolo di studio e sbaraccando un sistema dell’istruzione che garantisce successo a chi ci lavora, non a chi ci studia. La verità, insomma, va detta tutta. Altrimenti si prendono solo applausi, tanto scroscianti quanto inutili e conservatori.
A noi non può che fare piacere sapere che la Fiat intende restare e crescere in Italia. Evviva. Ma è stato Marchionne ad andare in televisione e raccontare che nel nostro Paese non fa un solo centesimo di utile. Allora, escluso che voglia candidarsi a protagonista di una parabola evangelica, escluso anche che sappia come moltiplicare i pani e i pesci, è chiaro che si tengono aperti gli stabilimenti produttivi e si chiudono quelli che appesantiscono i conti, e se, invece, si fa il contrario, allora si ha il dovere di raccontarla tutta. Perché Marchionne sostiene la prima tesi ospite della Rai e la seconda ospite del governo? Ecco la risposta: perché se vuoi chiudere uno stabilimento in Spagna o in Svezia ne paghi il costo sociale, se lo vuoi chiudere in Italia si apre un dibattito politico, non scuci un tallero e puoi anche mettere becco sulla scelta di chi prende il tuo posto.
A me sta benissimo che le imprese abbiano come finalità il profitto, mentre trovo sospetti i discorsi filantropici (è socialmente utile la ricerca del profitto, è politicamente costosa la bontà in conto a terzi). Se Marchionne s’attiene alle regole del mercato ha la nostra ammirazione, se, invece, deroga da quelle e trae vantaggi dal nostro sistema detestabilmente consociativo e inciucistico, allora se ne assuma le responsabilità ed eviti toni stonatamene patriottici.
I discorsi di Draghi e Marchionne non hanno nulla in comune, se non la possibilità d’essere pronunciati senza che alcun protagonista politico sia in grado d’alzarsi e contestare agli oratori le loro mancanze e incoerenze. Non è colpa loro se la nostra è divenuta una politica minuscola, le cause sono più profonde e meno contingenti. Ma credo sia utile avvertire che nelle mezze verità c’è poco di maiuscolo. E quel che c’è non è ammirevole.
Precari e competitività Stampa E-mail
Scritto da Davide Giacalone   
sabato 06 novembre 2010
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Quello di Mario Draghi (si devono stabilizzare i precari) è un programma politico. Quella di Sergio Marchionne (rafforzeremo la presenza Fiat in Italia) è una decisione politica. Lo scrivo senza alcun intento polemico. Anzi, se la politica viene meno ai propri doveri, di governare il presente avendo in mente un’idea di futuro, è bene che altri protagonisti si facciano avanti. Ma chi fa politica deve accettare le regole del contraddittorio politico, evitando di contrarre il difetto dei politicanti: aggirare i problemi con mezze verità.
Sottoscrivo il ragionamento di Draghi: l’Italia perde competitività da molti anni e continua farlo, rinunciare alla ricchezza dell’esperienza maturata nel lavoro aggrava i problemi. Giusto, ma proporre la graduale stabilizzazione dei precari induce più confusione che ragionevole speranza. E’ vero che negli anni pre-crisi l’occupazione con contratti a tempo parziale e/o determinato è cresciuta, in Italia, più che in altri Paesi europei, ma ciò si deve all’arretratezza della legislazione precedente, che soffocava questo genere di rapporti, e alla lungimiranza della legge Biagi. Ed è vero che espellere quei lavoratori, sotto la pressione della crisi, significa bruciare esperienza e creare loro seri problemi, ma proporre la stabilizzazione senza aggiungere che deve accompagnarsi con una revisione complessiva del mercato del lavoro equivale a promettere pane e felicità per tutti. Un sotterfugio da comizianti, più che una ponderata riflessione da economisti. Non si può chiedere più elasticità e più sicurezza per tutti. Siccome non è saggio difendere un sistema che produce perdite di competitività è meglio proporre più meritocrazia e più mobilità. Avendo cura, per onestà, d’aggiungere: in entrata e in uscita.
Tra il 1998 e il 2008, nel settore privato, il costo del lavoro per unità di prodotto è cresciuto del 24% in Italia e del 15% in Francia, mentre è diminuito in Germania. Sono dati della Banca d’Italia. Se stabilizzassimo i precari, senza adottare altre misure compensative, non faremmo che aumentare il divario. E’ verissimo (quante volte lo abbiamo scritto!) che la mobilità sociale è scandalosamente bassa e che l’istruzione non produce promozione dei migliori. Ha fatto bene Draghi a ripeterlo. Ma non si rimedia dando più soldi e più carriera ai laureati, altrimenti assesteremmo ulteriori mazzate alla produttività, si agisce cancellando il valore legale del titolo di studio e sbaraccando un sistema dell’istruzione che garantisce successo a chi ci lavora, non a chi ci studia. La verità, insomma, va detta tutta. Altrimenti si prendono solo applausi, tanto scroscianti quanto inutili e conservatori.
A noi non può che fare piacere sapere che la Fiat intende restare e crescere in Italia. Evviva. Ma è stato Marchionne ad andare in televisione e raccontare che nel nostro Paese non fa un solo centesimo di utile. Allora, escluso che voglia candidarsi a protagonista di una parabola evangelica, escluso anche che sappia come moltiplicare i pani e i pesci, è chiaro che si tengono aperti gli stabilimenti produttivi e si chiudono quelli che appesantiscono i conti, e se, invece, si fa il contrario, allora si ha il dovere di raccontarla tutta. Perché Marchionne sostiene la prima tesi ospite della Rai e la seconda ospite del governo? Ecco la risposta: perché se vuoi chiudere uno stabilimento in Spagna o in Svezia ne paghi il costo sociale, se lo vuoi chiudere in Italia si apre un dibattito politico, non scuci un tallero e puoi anche mettere becco sulla scelta di chi prende il tuo posto.
A me sta benissimo che le imprese abbiano come finalità il profitto, mentre trovo sospetti i discorsi filantropici (è socialmente utile la ricerca del profitto, è politicamente costosa la bontà in conto a terzi). Se Marchionne s’attiene alle regole del mercato ha la nostra ammirazione, se, invece, deroga da quelle e trae vantaggi dal nostro sistema detestabilmente consociativo e inciucistico, allora se ne assuma le responsabilità ed eviti toni stonatamene patriottici.
I discorsi di Draghi e Marchionne non hanno nulla in comune, se non la possibilità d’essere pronunciati senza che alcun protagonista politico sia in grado d’alzarsi e contestare agli oratori le loro mancanze e incoerenze. Non è colpa loro se la nostra è divenuta una politica minuscola, le cause sono più profonde e meno contingenti. Ma credo sia utile avvertire che nelle mezze verità c’è poco di maiuscolo. E quel che c’è non è ammirevole.

Il sindaco Carini Ci COLMA di MIN.....!

"....Colmata. Carini dice che entro l’anno si risolve tutto.Paranoia totale.
Che notizie ci dà lei?
Io sto cercando di fare inserire la colmata nel progetto di rifacimento del porto. Diventa un’unica grande area, e sarà la Regione ad assumersi i costi per la sistemazione dell’area.
All’insaputa del Comune?
Non si capisce il ruolo del Comune. Non ha alcun compito in questa vicenda..".

lunedì 1 novembre 2010

un sinodo di follie

 FAMIGLIA CRISTIANA del 28/10/2010, a pag. 12 l'articolo di Alberto Bobbio dal titolo “Gerusalemme pace e non muri” analizza i punti principali sui quali si è concentrato il Sinodo per il Medio Oriente.
E Israele ancora una volta è nel mirino: non basta che venga sistematicamente condannato dalla stampa estera, che istituzioni accademiche, economiche o artistiche israeliane vengano boicottate per i motivi più svariati, che l’ONU abbia dedicato all’unica democrazia del Medio Oriente - garante di diritti civili e umani - circa l’80% dei suoi atti,  anche il Sinodo, anziché un’opportunità di approfondimento e riflessione, si trasforma nell’occasione per condannare lo Stato ebraico e “
chiedere esplicitamente che le Nazioni Unite facciano rispettare a Israele le risoluzioni del Consiglio di sicurezza…..il ritorno dei profughi e la promozione di un linguaggio di pace”. Parola quest’ultima ben conosciuta e rispettata dallo Stato ebraico.
Nell’articolo invece non ci sono condanne esplicite né per le formazioni terroristiche palestinesi, né per il regime di terrore instaurato da Hamas a Gaza che utilizza i civili come scudi umani e che ha condotto la popolazione palestinese alla miseria.
Anzi si evidenzia che “
se il popolo palestinese avrà una patria, anche Israele potrà godere della pace”, lasciando intendere che se i palestinesi non hanno una patria la responsabilità è naturalmente di Israele.
Peraltro l’assicurazione dei padri sinodali di “
aver anche ragionato sulla sofferenza e l’insicurezza degli israeliani”, è smentita dalle continue condanne del “muro” – presente anche nel titolo - che Israele ha costruito (in realtà si tratta di una barriera difensiva, per l’80% del suo tracciato fatta di filo spinato) nel tentativo di proteggersi da un terrorismo spietato e che ha salvato centinaia di vite innocenti.
Nessuna condanna invece è rivolta dai solerti padri sinodali a quei paesi (ad esempio l’Iran) che violano i diritti umani, che lapidano le donne, che torturano i dissidenti a riprova che “
il doppio standard è lo standard regolarmente utilizzato per giudicare Israele”.
Il raggiungimento di una pace duratura non può prescindere dalla cessazione dell’incitamento all’odio nei confronti di Israele e dal riconoscimento di questo paese come Stato degli ebrei da parte di tutti i paesi che gravitano nell’area.
Anche questa è una verità che è necessario affermare, con coraggio
Un coraggio che è mancato al Sinodo dei vescovi.

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