guerra all'italico declino

FEDERALISMO; necessità italica di DITTATURA CORRETTIVA a tempo determinato per eliminazione corruzione, storture e mafie; GIUSTIZIA punitiva e certezza della pena; LIBERISMO nel mercato; RICERCA/SVILUPPO INNOVAZIONE contro la inutile stabilità che è solo immobilismo; MERCATO DEL LAVORO LIBERO e basato su Meritocrazia e Produttività; Difesa dei Valori di LIBERTA', ANTIDOGMATISMO, LAICITA' ;ISRAELE nella UE come primo baluardo di LIBERTA'dalle invasioni. CULTURA ED ARTE come stimolo di creatività e idee; ITALIAN FACTOR per fare dell'ITALIA un BRAND favolosamente vincente. RISPETTO DELLE REGOLE E SENSO CIVICO DA INSEGNARE ED IMPORRE

venerdì 25 novembre 2011

L’Europa allo sbando

Le elezioni spagnole, tenutesi lo scorso weekend hanno stabilizzato la situazione spagnola. La vittoria di Mariano Rajoy, con una schiacciante maggioranza assoluta, era prevista e prevedibile, dopo i grandi problemi economici irrisolti dal Governo Zapatero. Nonostante questo lo spread spagnolo rimane molto elevato nelle ultime settimane.
E non solo dalla Spagna arrivano grandi preoccupazioni. Il contagio della crisi del debito sovrano è ormai una questione europea. Il Belgio e la Francia hanno visto il loro spread esplodere nella scorsa settimana in un clima di sfiducia totale nei confronti dell’Euro e dell’Europa.
Proprio l’Unione Europea è l’anello debole dell’euro. Mentre la Banca Centrale Europea  fa il possibile per immettere liquidità sul mercato, acquistando il debito di Italia e Spagna, le istituzioni europee non riescono a trovare un accordo sul fondo salva Stati, o almeno sul suo rifinanziamento, e su una politica economica più coordinata.
Che sia chiaro: più coordinazione non significa avere una politica economica unica dove si aumentano le tasse, ma si può pensare ad un modello di federalismo competitivo come accade negli Stati Uniti d’America o Svizzera dove esiste un’unica moneta.
Allo stato attuale in Europa si dibatte solo di eurobond, come se questi potessero risolvere tutti i mali dell’Unione Europea. Ovviamente la Germania si oppone. Giustamente perché la cancelliera Angela Merkel difficilmente può accettare un accordo per il quale il paese teutonico si accolla a pagare maggiori interessi sul debito a causa del cattivo comportamento dei PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna).
La crisi dell’euro è dunque molto forte e di difficile soluzione, ma non sembra che questi leader europei abbiano le capacità di risolvere le problematiche; anche perché sono gli stessi leader che hanno creato un enorme debito pubblico con spese keynesiane assurde per cercare di fare uscire inutilmente dalla recessione i loro rispettivi Paesi.
L’esito è stato scontato e tragico al contempo. I Paesi europei si sono trovati sul “groppone” un enorme debito pubblico che adesso devono cercare di ripagare aumentando le tasse e di fatto andando verso ad una distruzione dell’Euro.
Lo spread dunque, così come il declassamento del debito da parte delle agenzie di valutazione internazionali, non è dunque un accanimento della speculazione finanziaria internazionale, ma una giusta conseguenza di politiche economiche molto allegre, per non dire folli.
E proprio sullo spread vi è un’analisi interessante riguardo gli ultimi mesi fatta da Tito Boeri per lavoce.info.
Si può effettivamente notare che il differenziale dello spread rispetto ai bund tedeschi di Italia e Spagna ha avuto dei cambiamenti molto repentini negli ultimi mesi. Fino all’agosto di questo anno la Spagna scontava una situazione peggiore rispetto al nostro paese, ma proprio durante l’estate la situazione è cambiata repentinamente. Mentre in Spagna si andava verso le elezioni e la scontata vittoria del Partito Popolare che si impegnava a  fare i tagli necessari, in Italia, la situazione politica diventava sempre più incerta.
Le continue manovre finanziarie non venivano prese sul serio dal mercato, che le puniva continuamente con un peggioramento dello spread sui bund tedeschi. L’apice è stato raggiunto ad inizio novembre, quando poi si è arrivato al cambio di Governo e ad una maggiore stabilità politica dell’Italia.
Nelle ultime settimane la crisi si è allargata a quasi tutta l’Europa, fino a raggiungere ieri, con l’asta deserta dei bund tedeschi anche la Germania. D’altronde i tassi d’interesse pagati erano estremamente bassi e l’eventuale fallimento dell’euro avrebbe molte conseguenze negative anche sul paese guidato da Angela Merkel.
I problemi europei sono dunque enormi e non sembra che la classe dirigente attuale sia in grado di risolverli.
FONTEhttp://www.chicago-blog.it/2011/11/24/l%E2%80%99europa-allo-sbando/#more-10583

giovedì 24 novembre 2011


Riportiamo dal sito internet del SOLE 24 ORE l'articolo di Dani Rodrik dal titolo "Il tramonto della democrazia in Turchia".

Dani Rodrik, Recep Erdogan

CAMBRIDGE – Di fronte alle recenti contestazioni per l’arresto di un professore di diritto costituzionale accusato di aver insegnato in un istituto gestito dal principale partito politico pro-curdi del paese, il Ministro dell’Interno turco, Idris Naim Sahin, non è riuscito a nascondere la sua irritazione affermando di non riuscire a capire chi sostiene che un professore non debba essere arrestato quando altre migliaia di persone in Turchia sono state messe in carcere.
Presumibilmente Sahin intendeva dire che un professore non può rivendicare un trattamento speciale secondo la legge. Ma la sua affermazione ha inavvertitamente evidenziato la nuova realtà turca secondo cui qualsiasi individuo percepito come oppositore al regime in vigore può essere arrestato per terrorismo o atti violenti, con o senza prove.
I tribunali speciali per il perseguimento del terrorismo e dei crimini contro lo stato hanno fatto gli straordinari per produrre accuse spesso assurde ed infondate. Diversi giornalisti sono stati, ad esempio, arrestati per aver scritto articoli e libri su ordine di una presunta organizzazione terroristica chiamata Ergenekon la cui esistenza non è ancora stata confermata nonostante anni di indagini.
Allo stesso modo, alcuni ufficiali militari sono stati accusati sulla base di documenti spudoratamente fraudolenti, chiaramente prodotti da dilettanti, contenenti evidenti anacronismi. Un commissario di polizia sta languendo in carcere per una presunta collaborazione con dei militanti di estrema sinistra, gli stessi che ha tentato di stanare per una vita. Questi procedimenti giudiziari hanno creato una rete sempre più grande intrappolando decine di giornalisti, autori ed accademici, centinaia di ufficiali e, tra gli altri, migliaia di politici e attivisti curdi.
L’autocensura è diventata una routine. I direttori dei media, ansiosi di mantenere il favore del Primo Ministro Recep Tayyip Erdoðan, hanno licenziato molti dei giornalisti che hanno continuato a criticare il regime. Inoltre, il controllo del governo si è ora esteso oltre ai media, alla magistratura e al mondo accademico arrivando al business e allo sport. Tempo prima, gli enti autonomi di regolamentazione (come l’Autorità per la Concorrenza) sono stati silenziosamente subordinati al governo senza alcun dibattito o discussione.
Persino l’Accademia delle Scienze della Turchia è stata presa sotto mira. Un decreto approvato recentemente, e largamente condannato all’estero, permette al governo di nominare due terzi dei membri dell’Accademia eliminando in tal modo persino la parvenza dell’indipendenza scientifica.
Ma Erdoðan sembra essere immune a qualunque forma di critica. Il suo successo nell’aver allargato l’accesso alla sanità, all’educazione e agli alloggi gli ha permesso di vincere tre elezioni generali, ciascuna con una percentuale di voti più elevata della precedente. Ha messo fine al potere militare della vecchia guardia e alla presa della stantia ideologia kemalista- alla base del nazionalismo introdotto dal primo presidente turco, Mustafa Kemal Atatürk- cambiando in modo permanente l’assetto della politica turca. Ha presieduto l’emersione di una nuova classe vibrante di imprenditori dell’Anatolia e, sotto il suo governo, la Turchia è diventata una potenza a livello regionale.
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letterealsole@ilsole24ore.com

mandare a casa l'esercito in Egitto solo un' operazione destabilizzante per tutti!

l GIORNALE - Fiamma Nirenstein : "Troppa fretta e troppe insidie. In Egitto il voto è un pericolo "

Fiamma Nirenstein

I militari hanno dominato l’Egitto per cinquemila anni, figu­r­iamoci se adesso hanno intenzio­ne di abbando­nare il potere.
Senza entra­re nelle finezze etno- storiche per cui forse gli egiziani di oggi non sono pro­prio gli egizi di ieri, tuttavia in­sieme ai farao­ni di cui ci sono rimaste vivide pitture e statue, appaiono sem­pre cerimonio­si generali, di cui ci sono rima­sti nomi e noti­zie. Al tempo nostro, Nasser era un militare, come Sadat e Mubarak e die­tro di loro si so­no sempre in­t­raviste solide fi­gure marziali di supporto. Tantawi, oggi energico gene­rale 76enne, era sodale di Mubarak, e adesso che la folla in piazza Tahrir ne urla con odio il no­me, resiste gal­leggiando sul caos: ma se anche lui cade sotto la spinta della piazza, il futuro sarà peggiore.
Le elezioni parlamentari che si devono tenere lunedì per il parla­mento in una selva di norme in­comprensibili dureranno fino a gennaio, con tempi lunghi per i brogli più che per la riflessione; in­tanto si deve disegnare la Costitu­zione e le elezioni presidenziali. Ma quando? Il primo accordo dice non prima del 2013, ma già lo si contesta. E quando la Costituzio­ne? Prima, dopo le elezioni presi­denziali? I militari dicono prima, la folla il contrario, e vuole intanto anticipare l’elezione del presiden­te per cacciare i militari. Tantawi ha fatto varie mosse da gettare nel­le fauci del popolo infuriato, prota­gonista oggi di una rivoluzione di­versa da quella di febbraio che era densa, oltre che di povera gente sfruttata, di laici stanchi della ditta­tura, di professionisti, di studenti, di bloggers. Ormai è sovrastante la componente islamista (a sua volta in lotta al suo interno, fra Fratellan­za Musulmana e salafiti) che, rior­ganizzatasi dopo i divieti di Muba­rak, ora si batte contro l’imposta­zione laica della Costituzione. La protesta nata venerdì e a cui l’eser­cito ha risposto sparando, aveva avuto come spunto il testo del Pri­mo Ministro Al Selmy (ora dimes­sosi) per la nuova costituzione: non prevede nessun controllo par­lamentare dell’esercito, quindi gli dà un potere assoluto;dà all’eserci­to­il potere di definire le minacce al­la sicurezza, comprese quelle civi­l­i, quindi preoccupa la Fratellanza Musulmana; decide che devono essere due terzi del Parlamento ad approvare la commissione che sta­bilisca definitivamente chi scrive la Costituzione, quindi i tempi di­ventano egizi. La folla ha ottenuto che, oltre a far dimettere tre ministri, Tantawi anticipi a giugno le elezioni presi­denziali. Ma non sappiamo se que­­sto placherà la piazza: i laici hanno interesse a creare caos perché non sono pronti a gestire la situazione politica, i religiosi perché vogliono rovesciare il potere militare che li tiene a bada rispetto alle aspettati­ve di introdurre in Egitto la sharia. Dunque, le elezioni, né quelle di lu­nedì né quelle presidenziali rap­presentano una soluzione. Quan­do George Bush nel 2006 insistette perché Hamas partecipasse alle elezioni, questo portò alla costru­zione di uno staterello terrorista, Gaza. I militari sanno che le elezio­ni dovrebbero creare, oggi come oggi, un Parlamen­to protetto, men­treunacommissio­ne parlamentare avvia la strada per un potere esecuti­vo in cui i diritti civi­li e religiosi venga­no rispettati, le donne salvaguar­date, la pace con Israele mantenu­ta. Insomma, le elezioni non sono una garanzia, quando si pensa che l’Alleanza Musulmana può,secon­do le previsioni, prendere il 40 per cento dei voti. Dunque, rallentare, prego, non si gioca con l’Egitto, il paese arabo più importante.
www.fiammanirenstein.com
Il FOGLIO - " Il problema in piazza della Fratellanza "

Fratelli Musulmani

Il Cairo, dal nostro inviato. La notizia, tenuta nascosta, è che un rappresentante della Fratellanza musulmana avrebbe partecipato alla riunione d’emergenza tra governo e militari del 21 novembre per decidere che cosa fare durante la seconda rivoluzione scoppiata a piazza Tahrir – entrata ieri nel quinto giorno di scontri violenti. Sarebbe la prova che la Fratellanza sta orchestrando la crisi assieme al Consiglio supremo dei militari: i vincitori probabili delle elezioni parlamentari che iniziano martedì prossimo vanno a braccetto con i militari che detengono il potere. La concessione più grande fatta due giorni fa dal capo dei militari, il generale Tantawi, al paese durante il suo discorso tv è l’annuncio di elezioni presidenziali entro il giugno 2012, e non più nel 2013 come ormai si credeva. E’ un favore alla Fratellanza: più le presidenziali sono ravvicinate, più la loro organizzazione prevarrà sulla disorganizzazione e l’inesperienza dei partiti rivali. E sarebbe anche la prova dell’alleanza: aiutateci a navigare la crisi – è l’offerta dei militari – e possiamo accordarci sul resto. Questo spiega la rabbia della piazza contro i Fratelli, percepiti come abili manipolatori. Un loro rappresentante, Beltagi, uno dei più vicini ai giovani e ai manifestanti, è stato cacciato a forza da piazza Tahrir quando ha tentato di arringare la folla. La Fratellanza nella sua doppia identità, l’organizzazione e il partito, ha annunciato che non partecipa alla manifestazione permanente di piazza Tahrir con motivazioni vaghe come “non vogliamo creare problemi al traffico” o “abbiamo a cuore la stabilità del paese”. “L’85 per cento degli egiziani è d’accordo con noi, bisogna evitare il bagno di sangue”, ha dichiarato con un comunicato emesso nel momento peggiore, nella serata di domenica, mentre le forze di sicurezza uccidevano almeno una ventina di manifestanti. Ieri l’imam di al Azhar, autorità religiosa per i Fratelli e per il mondo islamico, ha chiesto alla polizia di non sparare “per nessun motivo”. Molti Fratelli e molti salafiti si sono presentati spontaneamente e stanno partecipando agli scontri. Li si vede con la barba senza baffi e l’orlo dei calzoni alto – come prescrive la regola dei duri e puri – in mezzo ai giovani metropolitani che costituiscono il nucleo più numeroso e attivo delle proteste. “Sì, sceicco, le ragazze sono in jeans e senza velo, ma sono coraggiose, ci stanno dando una mano”, può capitare di sentire dire al telefonino. Ma la leadership è sbilanciata verso il governo e lo status quo, esattamente come lo era a gennaio, quando rifiutarono di intevernire in piazza, nonostante ora siano i maggiori beneficiari di quei moti. In parallelo a loro si muovono i partiti salafiti, una galassia di sei gruppi che si è staccata dal cartello elettorale con i Fratelli ma che continua a replicare ogni loro mossa. E’ come se ci fosse uno scollamento tra la base, che reagisce ai soprusi dei generali, e i vertici, che seguono schemi opportunistici e hanno ormai una sola cosa in mente: il traguardo elettorale. E’ questo malessere che ha portato alla rottura fra molti Fratelli più giovani e i quadri dirigenti, una delle tante fratture sofferte dall’organizzazione da quando è uscita dalla clandestinità e ha dovuto affrontare la luce del mondo reale nel dopo Mubarak. Resta da vedere se questo modo di procedere senza mai allarmare la maggioranza silenziosa sarà vincente ancora a lungo: per ora tutti i cambiamenti importanti al Cairo sono stati ottenuti dalla minoranza non inerte.
LIBERO - Carlo Panella : " L'Egitto punta sull'uomo dell'atomica iraniana"

Carlo Panella

Quinto giorno di scontri al Cairo, altri tre morti, almeno (per un totale di più di quaranta), migliaia di feriti e una sola verità: la polizia, il governo, la Giunta militare stanno facendo di tutto nonper chiudere la protesta,ma per attizzarla, renderla permanente, in modo da avvelenare le elezioni che si terranno lunedì prossimo e far vedere plasticamente al Paese che l’unica soluzione non è la democrazia, ma la tutela autoritaria sull’Egitto da parte della Giunta militare guidata dal feldmaresciallo Hussein Tantawi, che per decenni è stato il fedele braccio destro di Hosni Mubarak (per poi tradirlo e deporlo lo scorso febbraio, nell’evi - dente tentativo di sostituirlo come raìs).
IL CANDIDATO
Il tutto, in una situazione di estrema debolezza politica e di strategia da parte delle forze di opposizione, ad eccezione dei Fratelli Musulmani (che infatti hanno ritirato il loro appoggio alla piazza) e cercano uno sbocco politico. Simbolo plastico di questa debolezzaè Mohammed el Baradei, che divenne presidente dell’Aiea dopo un’oscura carriera come diplomatico, che si prodigò per anni per negare che l’Iran stesse costruendo la bomba atomica, mentendo spudoratamente - come ha rivelato in questi giorni il suo successore - che per questo scempio ha ottenuto un Nobel per la Pace in spregio a George W. Bush che sosteneva che gli ayatollah stavano per costruire la Bomba, chenon hanessuna basesociale di consenso in Egitto, ma che ora si candida alle presidenziali. Ieri, questo cinico «signor nessuno», esperto in sgomitamenti, ha denunciato su Twitter: «È in corso un massacro: gas lacrimogeni con agenti nervini e munizioni sono stati utilizzati contro i civili a piazza Tahrir». Vero e falso. Vero il massacro, veri i gas lacrimogeni, assurda la panzana sul gas nervino (letale) che però indica a chiare lettere che la trattativa che el Baradei pare avesse avviato con Tantawi per diventare premier e gestire l’emergenza è fallita e quindi lui si vendica in questo modo, con questa denuncia palesemente e volutamente esagerata, quasi demenziale. Detto questo, in piazza Tharir è veramente in corso un massacro voluto, regolato e gestito con cinismo dalla Giunta militare che per di più non manda avanti l’esercito, ma la polizia, sì da mantenere illibata in pubblico la propria sporchissima coscienza. Un quadro tanto grave da spingere al Tayeb, grande Imam di al Azhar ad ammonire: «La polizia deve smettere di sparare sul petto degli egiziani; le due parti devono cessare le violenze».
ASSALTO AL MINISTERO
Ma così non è stato: ieri pomeriggio le forze di polizia, dopo molte e feroci cariche, hanno improvvisamente abbandonato piazza, accolte dalle grida di gioia dei manifestanti, alcuni dei quali si sono precipitato a stringere la mano ai poliziotti: «Viva la rivoluzione», «Abbasso il ministero dell’Interno», «Il popolo vuole la caduta del maresciallo Tantawi». Naturalmente, e per l’ennesima volta, questa ritirata della polizia non preludeva affatto a una pacificazione della piazza, ma era stata orchestrata apposta per permettere ai manifestanti di tentare di dirigersi, come fanno da giorni, verso la sede del Ministero degli Interni passando per la via Mohamed Mahmoud, lì sono stati caricati e tutto è ricominciato. Scene simili di guerriglia urbana volutamente prolungata daunapolizia chenonfa l’unica cosa da fare, cariche prolungate e definitive sìda sgomberare definitivamente piazza Tharir continuano non sono solo nella capitale, ma ancheadAlessandria, dove un manifestante uomo è stato ucciso negli e una trentina di persone sono rimaste ferite, così come a Suez, Port Said, Ismailia e Assuan.
La STAMPA - Andrea Nativi : " Assurdo, sarebbero morti in migliaia "

Mohamed El Baradei      Andrea Nativi

«Fossero stati veramente gas nervini, avremmo visto cataste di morti. Non è neppure immaginabile l’uso di armi chimiche di distruzione di massa in un luogo simile, chiuso, con migliaia di persone assembrate». Andrea Nativi, direttore della Rivista italiana di difesa , classifica come «assurde» le affermazioni sull’uso di armi proibite contro la folla al Cairo. Anche se le immagini dei video diffusi in Rete impressionano, con la gente che vomita, trema, cade per terra.

Come se lo spiega?

«Chi ha sperimentano i normali gas lacrimogeni, o nelle manifestazioni e nell’addestramento militare, non si stupisce più di tanto. Nei corpi speciali, per esempio, è normale nelle esercitazioni essere sottoposti al Cs, il più comune dei lacrimogeni, con e senza maschera antigas. E, le assicuro, specialmente al chiuso non è piacevole. Gli effetti, poi, possono essere amplificati dalla reazione soggettiva, dallo stato di salute di chi è colpito».

Che cosa usano le forze di sicurezza?

«Il gas più usato è appunto il Cs, in linguaggio scientifico l’orto-clorobenziliden-malononitrile. Il principio diventa attivo al contatto con l’umidità o la pelle. Colpisce polmoni, occhi, vie respiratorie. A seconda dei dosaggi causa lacrimazione, vomito, tosse. Al chiuso, in situazioni estreme, può avere effetti letali, come ha dimostrato uno studio americano di una decina di anni fa. Insomma, non è una passeggiata per i dimostranti, specie se sono bombardati come si vede al Cairo».

Ma possono esserci altre armi «proibite»?

«Mi sembra che le forze di sicurezza egiziane stiano usando il tipico armamentario anti-riots, antisommossa. Bombe assordanti, flash bomb, che accecano. L’unico dubbio è che possano aver usato vecchi gas lacrimogeni, più potenti, come il Cr».

Non tutti gli Stati, comunque, hanno rinunciato alle armi chimiche...

«Certo, compresi Usa e Russia. Si tratta per lo più di iprite, o gas mostarda come lo chiamano gli anglosassoni, perché ha un forte odore di mostarda. Poi c’è il sarin, che agisce sul sistema nervoso. I libici, per esempio, hanno ammesso di averlo prodotto negli Anni 90. In ogni caso, usarlo in una piazza con un milione di persone non è semplice. Bisogna spargerlo, senza ammazzare se stessi. E, ripeto, l’effetto sarebbe quello di un campo di grano mietuto. Una strage colossale, nel giro di pochi minuti. Mi sembra strano che uno come El Baradei possa aver evocato un simile scenario».

Perché?

«Beh, non è solo un politico. È stato all’Aiea. Dovrebbe sapere di che cosa parla. Si riferiva all’iprite, al sarin? Avrebbero avuto effetti ben più devastanti. Evocare certe cose è da irresponsabili».

Operazione THUNDERBOLT..su la 7

 Riportiamo da LIBERO l'articolo di Andrea Morigi dal titolo "Quando Israele si riprendeva gli ostaggi".
Il Raid di Entebbe. Luglio 1976
Simon Dunstan, Il Raid di Entebbe (Libreria editrice Goriziana), Yonathan Netanyahu

La mezz’ora più lunga della storia va sotto il nome in codice di “Operazione Thunderbolt”. Ma nella storia militare è nota come Il raid di Entebbe. Luglio 1976, titolo del volume scritto dall’inglese Simon Dunstan (Libreria Editrice Goriziana, pp. 120, euro 15). L’impresa fu portata a termine dalle teste di cuoio israeliane del Sayeret Matkal e dai paracadutisti del Sayeret Tzanhanim il 3 luglio di 35 anni fa in Uganda, per liberare un centinaio di persone tenute in ostaggio da terroristi palestinesi e tedeschi in un terminal dell’aero - porto di Entebbe.
LE FASI DELL’AZIONE
È un resoconto giorno per giorno della crisi, che si accompagna alla descrizione delle varie opzioni prese in esame dai militari israeliani, a cui fa seguito la narrazione del raid, a partire dal volo degli Hercules C130 con la Stella di David attraverso l’Africa, passando per le fasi del combattimento-lampo contro rapitori arabi e guardie ugandesi, fino all’evacuazione per via aerea e al ritorno trionfale in Israele. A rendere più viva la ricostruzione, che si avvale anche di numerose fotografie dell’epoca, contribuiscono alcune mappe del terreno su cui si svolse l’as - salto. Se ne ricava una sorta di versione 3D notturna della scena, che induce il lettore a concentrarsi sul dettaglio dell’azio - ne. È in quei movimenti precisi dei commandos, indicati con vettori di diverso colore, che si riesce a comprendere il livello di preparazione tattica messo a punto dai comandi dell’Israel Defense Force e autorizzato in pochi giorni dal governo di Gerusalemme. Nulla fu lasciato al caso, benché si dovesse intervenire al più presto, prima dell’uc - cisione degli ostaggi. Non furono trascurate nemmeno le ripercussioni politiche e internazionali del gesto. Da allora, sebbene non furono certo fermate le stragi dei terroristi palestinesi, molti abbandonarono l’idea di colpire Israele. Per lo Stato ebraico la vittoria militare contro il Fronte per la Liberazione della Palestina e l’Uganda di Idi Amin Dada si tramutò in un successo politico. La guerra dello Yom Kippur del 1973, gli attacchi ripetuti dei palestinesi contro i civili israeliani avevano depresso il morale collettivo della popolazione. Nello spazio di una notte i cittadini israeliani passarono, dalla litigiosità che li divideva politicamente, a un ritrovato senso di unità nazionale. Nell’occasione nemici storici come Ytzhak Rabin e Menahem Begin si abbracciarono.
NESSUN CEDIMENTO
Tra gli eroi di quella notte, cadde in battaglia Yonatan Netanyahu, fratello di Benjamin, l’attuale premier israeliano. “Thunderbolt”, in suo onore, fu ribattezzata “Operazione Yonatan”. Vi furono altre perdite umane, sia fra i militari che fra i civili, durante il combattimento. Sebbene doloroso, non fu evitabile. E fu considerato un sacrificio necessario a salvare non solo le vite degli ostaggi di Entebbe, ma anche a evitare in prospettiva altre aggressioni contro obiettivi ebraici. Tuttavia all’epoca non si affacciò mai, nemmeno per un attimo, l’ipotesi di un cedimento alle richieste dei terroristi (fra i quali c’erano anche due comunisti tedeschi delle Revolutionäre Zellen) che pretendevano la liberazione di 40 palestinesi detenuti in Israele e di altri 13 loro compagni che si trovavano allora in carcere in Kenya, Francia, Svizzera e Germania. Altrimenti, ogni ebreo sul pianeta sarebbe divenuto l’obiettivo di violenze e ricatti.
IL CASO SHALIT
A oltre tre decenni di distanza, anche a Gerusalemme, sono cambiate le proporzioni del calcolo politico e l’intensità delle pressioni internazionali. Poco più di un mese fa, per ottenere la liberazione del proprio caporale Gilad Shalit, rapito dai terroristi di Hamas nel giugno del 2006, il governo di Israele ha trattato, fino ad accettare di scarcerare 477 pericolosi detenuti palestinesi. Nella società ebraica, così come nel mondo occidentale che le è vicino, l’entità della contropartita è stata giudicata con più di una perplessità. Si è aperto un lungo dibattito, non ancora concluso, sull’opportunità di porre a rischio, attraverso la liberazione di centinaia di potenziali terroristi palestinesi, la vita di persone innocenti.
UN’ALTRA OCCASIONE
Non è difficile tuttavia individuare altre analogie fra la situazione del 1976 e quella odierna. Attualmente, dopo le campagne in Libano e a Gaza, senza contare l’incursione a bordo dell’imbarcazione pacifista-terrorista Navi Marmara, il passato splendore di Tsahal e delle sue forze speciali sembra un ricordo un po’ opaco. Forse manca soltanto l’impresa epica in grado di riportare in superficie il valore, il coraggio e la forza di uno dei migliori eserciti al mondo. Se e quando si ripresenterà l’occasione appropriata per dimostrarlo, Israele dovrà approfittarne.

lettere@libero-news.eu

 

 

 

Operazione Entebbe

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Operazione Entebbe
Parte Conflitto Arabo-Israeliano
Entebbe Uganda Airport Old Tower1.jpg
La torre di controllo del vecchio terminal dell'aeroporto di Entebbe

Data 4 luglio 1976
Luogo aeroporto di Entebbe, bandiera Uganda
Esito missione riuscita, molti ostaggi liberati
Schieramenti
bandiera Israele PFLP flag smoothed.svg FPLP
Revolutionäre Zellen
bandiera Uganda
Comandanti
bandiera IsraeleYekutiel "Kuti" Adam
bandiera Israele Dan Shomron
bandiera Israele Yonatan "Yoni" Netanyahu
bandiera Israele Moshe "Muki" Betser
Wadie Haddad
Wilfried Böse
Idi Amin
Effettivi
approssimativamente 100 militari, più mezzi e personale di appoggio sconosciuti
Perdite
Yonatan Netanyahu ucciso
5 militari feriti
7 dirottatori uccisi
12~45 soldati ugandesi uccisi
3 ostaggi uccisi durante il raid, 1 ostaggio ucciso successivamente in ospedale, 10 ostaggi feriti
Volo Air France 139
Un Airbus A300 simile a quello dirottato
Un Airbus A300 simile a quello dirottato
Tipo di evento dirottamento aereo
Data 27 giugno 1976
Luogo spazio aereo della Grecia
Tipo di aeromobile Airbus A300B4-203
Operatore Air France
Numero di registrazione F-BVGG (cn 019)
Partenza Aeroporto Internazionale Ben Gurion, Tel Aviv, Israele
Scalo intermedio Ellinikon International Airport, Atene, Grecia
Destinazione Aeroporto di Parigi-Roissy, Francia
Passeggeri 248
Equipaggio 12
Vittime 4
Feriti 10
Sopravvissuti 256

voci di incidenti aerei presenti su Wikipedia
L'Operazione Entebbe delle Forze armate israeliane ebbe luogo nella notte tra il 3 luglio ed il 4 luglio 1976, nell'aeroporto dell'omonima città ugandese.
I militari che la pianificarono e la condussero le diedero il nome di "Operation Thunderbolt". In onore del colonnello Yonatan Netanyahu, che comandò il raid e fu l'unico militare israeliano a perdere la vita nell'azione, venne in seguito denominata anche "Operation Yonatan".

Indice

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Il dirottamento

Alle 12.30 del 27 giugno 1976, il volo 139 dell'Air France, un aereo Airbus A300 proveniente da Tel Aviv, decollò dall'aeroporto di Atene diretto a Parigi, con a bordo 244 passeggeri e 12 persone di equipaggio. Poco dopo, il volo venne dirottato da quattro terroristi. I dirottatori, due palestinesi appartenenti al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) e due tedeschi aderenti alle Revolutionäre Zellen, ordinarono di far rotta su Bengasi, in Libia. Qui l'aereo rimase a terra per sette ore, durante le quali venne rifornito e fu rilasciata una donna. In seguito l'Airbus decollò nuovamente, per dirigersi verso Entebbe, in Uganda. Il commando, infatti, fu appoggiato dal governo del dittatore ugandese Idi Amin che simpatizzava per la causa palestinese. Originariamente, Amin era stato sostenuto da molti Governi occidentali, Israele compreso. Le relazioni diplomatiche tuttavia degenerarono allorché il Governo di Israele rifiutò ad Amin l'acquisto di velivoli di combattimento che sarebbero serviti per attaccare la Tanzania. Fu così che Amin ruppe le relazioni con Israele e abbracciò la causa dell'OLP. L’aereo atterrò ad Entebbe alle 03:15 del 28 giugno.
Ai dirottatori si aggiunsero ben presto altri tre terroristi. Il gruppo, guidato da Wilfred Böse (non da Ilich Ramírez Sánchez, ossia "Carlos lo Sciacallo", come talvolta si sostiene), chiedeva la liberazione di 40 palestinesi detenuti in Israele, oltre a quella di altri 13 che si trovavano nelle prigioni di Kenya, Francia, Svizzera e Germania.
I dirottatori rilasciarono la maggior parte degli ostaggi, trattenendo solo i cittadini israeliani e gli ebrei, che minacciavano di uccidere se le loro richieste non fossero state accolte. Il capitano del volo, Michel Bacos, fece notare ai terroristi che, dal momento che tutti i passeggeri erano sotto la sua responsabilità, non ne avrebbe abbandonato alcuno e sarebbe rimasto con gli ostaggi. Tutto l'equipaggio fu solidale con il capitano, rifiutando di partire con un altro aereo dell'Air France, giunto ad Entebbe per portare via gli ostaggi liberati. Anche una suora francese rifiutò di partire, insistendo che il suo posto doveva essere preso da un altro ostaggio, ma fu spinta a forza sull'aereo che attendeva i passeggeri liberati dai militari ugandesi. Gli ostaggi rimasti furono rinchiusi nel vecchio terminal dell'aeroporto.

Il Raid 

Il governo di Israele iniziò le trattative per il rilascio degli ostaggi, al contempo studiava anche altre possibili soluzioni come l'intervento armato. Ottenendo 3 giorni di proroga rispetto all'ultimatum imposto riuscì ad organizzare una missione di salvataggio degli ostaggi che dava buone possibilità di successo. Fu affidata ai militari. Dopo diversi giorni dedicati alla raccolta di informazioni ed alla preparazione, il 4 luglio quattro aerei da trasporto C-130 Hercules (detti in gergo Ippopotami) dell'Heyl Ha'Avir, l'Aeronautica militare israeliana, atterrarono di notte all'aeroporto di Entebbe, ovviamente senza l'aiuto della torre di controllo. L'avvicinamento degli aerei fu fatto sfruttando le capacità di volo a bassa quota unite alle capacità di atterraggio su brevi piste. L'avvicinamento avvenne a fari di navigazione spenti e sfiorando la superficie del lago Victoria. Un altro aereo militare israeliano, un jet attrezzato per il pronto soccorso medico, atterrava nel frattempo all'aeroporto di Nairobi, in Kenya, mentre un altro aereo attrezzato da centro di comando volante dirigeva l'operazione[1]. Il governo keniota, avversario del regime ugandese, aveva infatti dato il suo appoggio all'operazione.
Erano impegnati nell'operazione oltre cento soldati delle IDF (in gran parte elementi del reparto speciale Sayeret Matkal) e, forse, diversi agenti del Mossad.
Gli israeliani atterrarono alle 23.00 circa, con i portelli di carico già abbassati. Fu fatta scendere una Mercedes nera, con due Land Rover al seguito. L'automobile e le Land Rover dovevano simulare la visita dello stesso Amin, per distrarre l'attenzione degli ugandesi e dei terroristi dai militari che si stavano avvicinando al terminal. La Mercedes, originariamente di colore bianco, apparteneva ad un civile israeliano ed era stata riverniciata di nero per il raid, con il presupposto che sarebbe stata restituita al legittimo proprietario, ignaro dell'uso al quale era destinata, con il colore originale[1] .
Mentre il convoglio si avvicinava, due sentinelle, che erano state avvertite del fatto che Amin aveva cambiato la sua Mercedes nera con una bianca, ordinarono alle auto di fermarsi e furono immediatamente uccise dagli israeliani.
Gli ugandesi furono ingannati dal diversivo israeliano e lasciarono che il finto corteo presidenziale si avvicinasse fino al terminal in cui erano rinchiusi i passeggeri e l’equipaggio del volo 139. Gli israeliani scesero dai mezzi ed irruppero nell’edificio, urlando agli ostaggi di stare giù. L’avvertimento fu fatto in ebraico ed uno dei passeggeri, che forse non aveva compreso, si alzò, dirigendosi verso i militari appena entrati. Questi ultimi, pensando si trattasse di un terrorista, lo uccisero. La stessa sorte toccò ai tre dirottatori che, trovandosi nel salone, cercarono di resistere. Un soldato, sempre in ebraico, chiese ai passeggeri dove fossero gli altri terroristi. Gli ostaggi indicarono una porta, che gli israeliani sfondarono, lanciando varie granate flash bang e lacrimogeni. Entrati nella stanza, i militari freddarono altri tre dirottatori, seduti attorno ad un tavolo ed ancora tramortiti dalle esplosioni. Gli israeliani tornarono quindi agli aerei, su cui iniziarono ad imbarcare gli ostaggi liberati[1].
Nel frattempo, diversi militari ugandesi, appostati nella vecchia torre di controllo adiacente al terminal, presero a sparare contro gli israeliani e gli ex ostaggi, in procinto di salire sui C-130. Gli israeliani interruppero l’imbarco e risposero immediatamente al fuoco con lanciarazzi, riuscendo quasi subito a neutralizzare gli uomini dell'esercito ugandese. Nel corso di quest’ultima sparatoria, due ostaggi furono colpiti a morte, così come Yonatan Netanyahu, comandante israeliano sul campo e fratello del futuro leader del Likud e primo ministro Benjamin Netanyahu[1].
Prima di decollare, un altro gruppo di incursori distrusse con esplosivo i caccia ugandesi MiG-21 che si trovavano sulla pista, per impedire ogni tentativo di inseguire gli Hercules, i quali, dopo una sosta tecnica a Nairobi, proseguirono il volo verso l’aeroporto di Tel Aviv[1].
L’incursione durò solo una trentina di minuti. Sei dirottatori vennero uccisi. Dei 103 ostaggi, ne morirono tre, il primo ucciso per errore dagli israeliani, gli altri due colpiti dagli ugandesi durante lo scontro a fuoco prima dell’imbarco. Il colonnello Netanyahu fu l’unico morto israeliano, mentre un altro soldato, Sorin Hershko, rimase invalido per le ferite riportate[1]. Il numero delle perdite ugandesi non è certo e varia secondo le fonti, da una dozzina fino a 45 circa. Si è sostenuto che gli israeliani durante l’operazione abbiano catturato alcuni terroristi, ma la notizia non ha ricevuto conferme.
Una passeggera settantacinquenne, Dora Bloch, durante il dirottamento si era sentita male e, al momento dell’attacco, si trovava ricoverata all’ospedale di Kampala. Nei giorni successivi il suo letto fu trovato vuoto e nessuno seppe più nulla di lei[1], fino al 1979, quando, caduto il regime di Amin a seguito della guerra contro la Tanzania, vennero ritrovati i suoi resti. Nell’aprile del 1987, Henry Kyemba, all’epoca ministro della sanità ugandese, dichiarò alla Commissione dei Diritti Umani dell’Uganda che la Bloch era stata prelevata dal suo letto ed in seguito assassinata da due ufficiali dell’esercito che agirono per ordine di Amin.

Analisi 

Uno dei fatti determinanti per il successo dell’incursione fu che il terminal in cui vennero rinchiusi gli ostaggi era stato costruito anni prima da un’impresa israeliana. Questa aveva conservato i progetti e li fornì sollecitamente ai militari, i quali, con l’aiuto di alcuni tecnici che avevano diretto i lavori, costruirono una replica esatta dell’edificio aeroportuale.
Negli anni sessanta e settanta, gli israeliani erano, infatti, molto impegnati nella cooperazione economica con i paesi dell’Africa sub sahariana ed il regime di Amin, prima che quest’ultimo rovesciasse le alleanze, era stato un forte fruitore dell’assistenza tecnica fornita dallo stato ebraico.
Decisamente d’aiuto alla pianificazione del raid furono anche i ricordi degli ostaggi rilasciati, interrogati a Parigi dai servizi d’informazione israeliani, che fornirono importanti dettagli in merito, per esempio, all’interno dell’edificio, al numero ed all’organizzazione dei dirottatori, al coinvolgimento delle truppe ugandesi.
I preparativi israeliani vennero condotti nella più stretta riservatezza. Ad esempio, gli operai civili che realizzarono la replica del terminal assieme ai militari, “rimasero ospiti” di questi ultimi fino ad operazione conclusa.
Prima di ordinare l’attacco, il governo israeliano effettuò diversi tentativi diplomatici per portare a casa gli ostaggi senza giungere ad una soluzione di forza. Molte fonti indicano che gli israeliani sarebbero stati disposti anche a rilasciare i prigionieri, nel caso l’opzione militare si fosse rivelata impraticabile. Un generale in pensione delle IDF, Chaim Bar-Lev, che conosceva personalmente il dittatore ugandese, ebbe con lui diverse conversazioni telefoniche, senza raggiungere alcun risultato[1].

Ulteriori sviluppi

Il governo dell’Uganda chiese che fosse convocato il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, per condannare il raid israeliano, in quanto violazione della sovranità ugandese. Il Consiglio di Sicurezza non approvò alcuna risoluzione.
Per essersi rifiutato di abbandonare i passeggeri rimasti in ostaggio, il capitano Bacos ricevette una nota di biasimo dai suoi superiori e fu sospeso dal servizio per un periodo. Tuttavia, egli ricevette nello stesso anno la Legion d'Onore dal Presidente Giscard d'Estaing e in seguito un'onorificienza da parte dell'Organizzazione ebraica B'nai B'rith. Tutti i membri dell'equipaggio dell'aeromobile ricevettero inoltre un'onorificienza da parte dello Stato di Israele.

 

Nationalità Passeggeri Equipaggio Totale
bandiera Belgio 4 0 4
bandiera Danimarca 2 0 2
bandiera Francia 42 12 54
bandiera Grecia 25 0 25
bandiera Germania 1 0 1
bandiera Israele 94 0 94
bandiera Italia 9 0 9
bandiera Giappone 1 0 1
bandiera Corea del Sud 1 0 1
bandiera Spagna 5 0 5
bandiera Regno Unito 30 0 30
bandiera Stati Uniti d'America 34 0 34
Totale 248 12 260

Film su Entebbe

I fatti di Entebbe diventarono materia d’ispirazione per tre film, due statunitensi ed uno israeliano.

Note  

^ a b c d e f g h 

Stevenson, William. "90 minuti ad Entebbe", Sonzogno Editore, 1976

Collegamenti esterni 

mercoledì 23 novembre 2011

Gli ordini professionali: cosa c’è di selvaggio nella liberalizzazione?

Due giorni fa è stato approvato il nuovo ddl stabilità dove, all’articolo 10, si avvia un possibile percorso di liberalizzazione degli ordini professionali. Le opportunità e i rischi di tale misura saranno approfonditi in un Focus di Silvio Boccalatte dedicato al tema. Ciò che si intende esaminare qui sono gli effetti benefici, che già si vedono, di quella che viene invece definita una “liberalizzazione selvaggia”.
La liberalizzazione degli ordini professionali è un tema molto dibattuto e controverso, più per l’estesa presenza di avvocati nelle Commissioni di Giustizia di Camera e Senato pronti ad impedire ogni riforma che per reali motivi di tutela dei consumatori. La loro giustificazione sarebbe che alla possibilità di avere un mercato più ampio e prezzi liberi si contrappone il rischio per i cittadini di non avere alcuna garanzia di professionalità. In realtà, però, gli ordini professionali e le tariffe calmierate rappresentano un freno più per i giovani avvocati che per quelli incompetenti, disincentivando così i primi a entrare nel settore e ostacolando le loro opportunità di carriera. All’opposto l’opinione di quanti invece considerano questa un’attività commerciale come le altre che, in quanto tale, prevede un compenso per il servizio prestato: ogni ostacolo alla libera concorrenza è quindi considerato principalmente una barriera all’ingresso che tende a tutelare i grandi e già affermati avvocati a scapito dei nuovi arrivati.
Mentre le parti in gioco si perdevano in dibattiti spesso più ideologici che concreti senza riuscire a trovare un accordo in materia, c’è chi è riuscito ad approfittare di quel poco di liberalizzazione introdotta: dei soggetti privati, tra cui Groupon, Altroconsumo e eBay, hanno infatti consentito ad alcuni professionisti (anche ai medici, oltre agli avvocati) di pubblicizzare proposte e sconti (ad esempio 39 euro anziché 500, con un risparmio del 92%). Grazie alla loro iniziativa hanno dato la possibilità agli avvocati che lo desideravano di differenziare la loro offerta e ampliare le proprie quote di mercato.
I vantaggi di questo progetto sono molteplici: innanzitutto, è nata così una nuova professione – cosa non da poco in tempo di crisi – ossia il procacciatore di pratiche legali per gli avvocati. Inoltre si facilita l’ingresso dei giovani professionisti sul mercato che, potendo offrire tariffe più basse, possono competere con quelli già affermati e dotati di una clientela fedele. È poi evidente che il loro successo è legato a una necessità ed esigenza da parte dei cittadini, prima non soddisfatta, che possono così godere di una differenziazione di prezzo del servizio. Infine, grazie alla maggior competizione introdotta è possibile ”smascherare” e, inevitabilmente, punire con l’uscita dal mercato, i professionisti meno capaci e abili, incentivandoli così ad offrire servizi di maggiore qualità: reputazione e fama, non tariffe minime e ordini, selezionerebbero gli avvocati migliori, a ulteriore dimostrazione che bassi prezzi non sono necessariamente sinonimo di servizi scadenti. Di sicuro, non lo sarebbero nel medio-lungo periodo dopo la “prova” dei mercati. Quanti, invece, temono di incappare in un avvocato incapace o incompetente nel breve periodo, sono liberi di affidarsi ai professionisti più esperti.
La reazione degli avvocati è quella di considerarla una “liberalizzazione selvaggia”, “la vendita di diritti fondamentali senza regole e senza la possibilità di verificare la qualità con effetti devastanti per i cittadini, che si ritrovano privi di tutela”: lungi dall’essere questo un mercato pienamente liberalizzato e tantomeno selvaggiamente liberalizzato,  in realtà il sospetto è che essi semplicemente mirino ad opporsi alla concorrenza, a tutto vantaggio della tutela dei loro privilegi più che dei cittadini.
 FONTE:http://www.chicago-blog.it/2011/11/16/gli-ordini-professionali-cosa-ce-di-selvaggio-nella-liberalizzazione/

sabato 12 novembre 2011

Una bella notizia per un week end ottimistico

Iran: esplosione base militare, 15 morti

Pasdaran, incidente mentre veniva spostato materiale esplosivo

 

Iran: esplosione base militare, 15 morti (ANSA) - TEHERAN, 12 NOV - Almeno 15 persone sono morte in un'esplosione che si e' verificata oggi nella base dei Pasdaran di Shahid Modarres, nel villaggio di Bigdaneh nei pressi di Malard, a circa 45 chilometri di Teheran in Iran. La tv di Stato Irinn cita in proposito un responsabile delle Guardie rivoluzionarie, Ramezan Sharif, che ha riferito che 15 suoi colleghi sono morti per un incidente avvenuto mentre spostavano materiale esplosivo in uno dei depositi. Incerto il numero dei feriti, che sarebbero gravi.

Chiudiamo ste baracche di burattini

Il FOGLIO - "  Agenzie dell’Onu a rischio bancarotta dopo il voto sui palestinesi"

Onu

Roma. L’Unesco rischia la bancarotta. L’agenzia dell’Onu per la cultura e la scienza ha sospeso tutte le nuove attività per il 2011. Una decisione drammatica e senza precedenti per far fronte a un grave deficit di bilancio. Un collasso economico che deriva dalla decisione degli Stati Uniti e di Israele di bloccare i fondi all’organizzazione dopo che la Palestina vi è stata ammessa come membro, lo scorso 31 ottobre. Lo ha annunciato il direttore generale Irina Bokova. L’Unesco è stata la prima agenzia dell’Onu a riconoscere a pieno titolo Abu Mazen. L’Autorità nazionale palestinese appare intenzionata a ottenere simili riconoscimenti da parte di altri organismi dell’Onu in una sorta di campagna internazionale destinata a spingere la massima istanza mondiale ad accettare la richiesta di adesione entro un anno. Tempi difficile si prospettano per molti organismi delle Nazioni Unite, specie se dovesse fallire (come pare) il percorso palestinese in seno al Consiglio di sicurezza per ottenere il riconoscimento di stato membro. In questo caso, la delegazione palestinese potrebbe decidere di avviare un riconoscimento “de facto”, chiedendo cioè l’ammissione in altre agenzie chiave del Palazzo di Vetro. Sedici in tutto, come ha spiegato l’ambasciatore palestinese a Ginevra, Ibrahim Khreisheh. Per l’Unesco è la peggiore crisi dagli anni Ottanta, quando l’agenzia fu al centro di incredibili e grotteschi scandali per lo spreco di denaro, la corruzione, il nepotismo dei suoi dirigenti e l’inefficienza della sua azione. Nel 1984 gli Stati Uniti di Ronald Reagan ne uscirono, dopo una serie di scontri con il capo dell’organizzazione, il senegalese Amadou-Mahtar M’Bow. Washington lasciò l’Unesco soprattutto per i suoi toni anti occidentali e per “le minacce alla libera stampa e al libero mercato”. Il segretario dell’Unesco, consapevole che senza i fondi americani non sarebbe andato da nessuna parte, si affidò, al prezzo di quindicimila dollari al mese (più le spese), a una società di lobbying statunitense che avrebbe dovuto tentare di convincere i senatori e i deputati di Washington a cambiare idea. Purtroppo quei quindicimila dollari furono sottratti da un conto Unesco destinato a finanziare la ricerca sul cancro. Lo scandalo gettò nel disonore l’agenzia. Una legge americana del 1994, che il deputato Kay Granger ha appena proposto di rafforzare, impedisce a Washington di finanziare gli enti dell’Onu che accettano i palestinesi. Quindi queste agenzie andrebbero incontro a un impoverimento economico qualora accettassero la richiesta palestinese. Per l’ingresso nell’Organizzazione mondiale della sanità ai palestinesi basta una semplice maggioranza. E’ un obiettivo facile. Ma a rischio dei 387 milioni di dollari americani, che l’agenzia ha già definito “vitali”. Stessa sorte per l’Agenzia atomica di Vienna, che rischia di perdere 187 milioni. Quattro quinti dei voti sono richiesti per entrare nell’Organizzazione internazionale dell’aviazione, mentre due terzi per l’Organizzazione del lavoro. I palestinesi, avendo già vinto all’Unesco, possono chiedere l’ingresso nell’Organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale, così come nell’Organizzazione per lo sviluppo industriale. I palestinesi hanno in programma di chiedere l’accesso anche alla Fao, che ha sede a Roma. Ma è soprattutto alla Corte penale dell’Aia che Abu Mazen adesso guarda. Non c’è rischio sui fondi, perché né Israele né gli Stati Uniti la finanziano. Una volta dentro, i palestinesi potrebbero chiedere di incriminare lo stato ebraico per “crimini di guerra e contro l’umanità”. 

La vignetta che ha suscitato le ire dell'Unesco

Contrariamente a quanto sostengono Udg e Hanan Ashrawi, il taglio dei fondi all'Unesco non ha nulla a che vedere con la cancellazione della presunta memoria palestinese. Non ha nulla a che vedere perchè non c'è nessuna storia palestinese da ricordare. Il popolo palestinese non esiste, è un'invenzione frutto della propaganda araba contro Israele. Chi cerca di cancellare la storia ebraica sono gli arabi, da sempre aiutati dall'Unesco
Udg descrive la vignetta su Haaretz e le reazioni ddi sdegno provocate all'Unesco "
Con un occhio anche alle tensioni militari fra Israele ed Iran, il caricaturista Eran Wolkowski aveva disegnato il premier Benyamin Netanyahu e il ministro della difesa Ehud Barak, in posa militarista, mentre davano le ultime istruzioni ad alcuni piloti dell’aviazione, presumibilmente in partenza per colpire gli stabilimenti nucleari in Iran. «E sulla via del ritorno - diceva Netanyahu - bombardate anche gli uffici dell’Unesco a Ramallah». ". E' evidente che la vignetta era contro Netanyahu, bastava guardare la testata sulla quale è stata pubblicata, per altro. Ma Unesco e Udg l'hanno presa molto sul serio, dimostrando, oltre a scarsa conoscenza della storia, anche scarso senso dell'umorismo.

Chiudiamo ste baracche di burattini

Il FOGLIO - "  Agenzie dell’Onu a rischio bancarotta dopo il voto sui palestinesi"

Onu

Roma. L’Unesco rischia la bancarotta. L’agenzia dell’Onu per la cultura e la scienza ha sospeso tutte le nuove attività per il 2011. Una decisione drammatica e senza precedenti per far fronte a un grave deficit di bilancio. Un collasso economico che deriva dalla decisione degli Stati Uniti e di Israele di bloccare i fondi all’organizzazione dopo che la Palestina vi è stata ammessa come membro, lo scorso 31 ottobre. Lo ha annunciato il direttore generale Irina Bokova. L’Unesco è stata la prima agenzia dell’Onu a riconoscere a pieno titolo Abu Mazen. L’Autorità nazionale palestinese appare intenzionata a ottenere simili riconoscimenti da parte di altri organismi dell’Onu in una sorta di campagna internazionale destinata a spingere la massima istanza mondiale ad accettare la richiesta di adesione entro un anno. Tempi difficile si prospettano per molti organismi delle Nazioni Unite, specie se dovesse fallire (come pare) il percorso palestinese in seno al Consiglio di sicurezza per ottenere il riconoscimento di stato membro. In questo caso, la delegazione palestinese potrebbe decidere di avviare un riconoscimento “de facto”, chiedendo cioè l’ammissione in altre agenzie chiave del Palazzo di Vetro. Sedici in tutto, come ha spiegato l’ambasciatore palestinese a Ginevra, Ibrahim Khreisheh. Per l’Unesco è la peggiore crisi dagli anni Ottanta, quando l’agenzia fu al centro di incredibili e grotteschi scandali per lo spreco di denaro, la corruzione, il nepotismo dei suoi dirigenti e l’inefficienza della sua azione. Nel 1984 gli Stati Uniti di Ronald Reagan ne uscirono, dopo una serie di scontri con il capo dell’organizzazione, il senegalese Amadou-Mahtar M’Bow. Washington lasciò l’Unesco soprattutto per i suoi toni anti occidentali e per “le minacce alla libera stampa e al libero mercato”. Il segretario dell’Unesco, consapevole che senza i fondi americani non sarebbe andato da nessuna parte, si affidò, al prezzo di quindicimila dollari al mese (più le spese), a una società di lobbying statunitense che avrebbe dovuto tentare di convincere i senatori e i deputati di Washington a cambiare idea. Purtroppo quei quindicimila dollari furono sottratti da un conto Unesco destinato a finanziare la ricerca sul cancro. Lo scandalo gettò nel disonore l’agenzia. Una legge americana del 1994, che il deputato Kay Granger ha appena proposto di rafforzare, impedisce a Washington di finanziare gli enti dell’Onu che accettano i palestinesi. Quindi queste agenzie andrebbero incontro a un impoverimento economico qualora accettassero la richiesta palestinese. Per l’ingresso nell’Organizzazione mondiale della sanità ai palestinesi basta una semplice maggioranza. E’ un obiettivo facile. Ma a rischio dei 387 milioni di dollari americani, che l’agenzia ha già definito “vitali”. Stessa sorte per l’Agenzia atomica di Vienna, che rischia di perdere 187 milioni. Quattro quinti dei voti sono richiesti per entrare nell’Organizzazione internazionale dell’aviazione, mentre due terzi per l’Organizzazione del lavoro. I palestinesi, avendo già vinto all’Unesco, possono chiedere l’ingresso nell’Organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale, così come nell’Organizzazione per lo sviluppo industriale. I palestinesi hanno in programma di chiedere l’accesso anche alla Fao, che ha sede a Roma. Ma è soprattutto alla Corte penale dell’Aia che Abu Mazen adesso guarda. Non c’è rischio sui fondi, perché né Israele né gli Stati Uniti la finanziano. Una volta dentro, i palestinesi potrebbero chiedere di incriminare lo stato ebraico per “crimini di guerra e contro l’umanità”. L'UNITA' - Umberto De Giovannangeli : "  Unesco e Israele ai ferri corti . Ma Berlino sblocca i fondi"

La vignetta che ha suscitato le ire dell'Unesco

Contrariamente a quanto sostengono Udg e Hanan Ashrawi, il taglio dei fondi all'Unesco non ha nulla a che vedere con la cancellazione della presunta memoria palestinese. Non ha nulla a che vedere perchè non c'è nessuna storia palestinese da ricordare. Il popolo palestinese non esiste, è un'invenzione frutto della propaganda araba contro Israele. Chi cerca di cancellare la storia ebraica sono gli arabi, da sempre aiutati dall'Unesco
Udg descrive la vignetta su Haaretz e le reazioni ddi sdegno provocate all'Unesco "
Con un occhio anche alle tensioni militari fra Israele ed Iran, il caricaturista Eran Wolkowski aveva disegnato il premier Benyamin Netanyahu e il ministro della difesa Ehud Barak, in posa militarista, mentre davano le ultime istruzioni ad alcuni piloti dell’aviazione, presumibilmente in partenza per colpire gli stabilimenti nucleari in Iran. «E sulla via del ritorno - diceva Netanyahu - bombardate anche gli uffici dell’Unesco a Ramallah». ". E' evidente che la vignetta era contro Netanyahu, bastava guardare la testata sulla quale è stata pubblicata, per altro. Ma Unesco e Udg l'hanno presa molto sul serio, dimostrando, oltre a scarsa conoscenza della storia, anche scarso senso dell'umorismo.

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