guerra all'italico declino

FEDERALISMO; necessità italica di DITTATURA CORRETTIVA a tempo determinato per eliminazione corruzione, storture e mafie; GIUSTIZIA punitiva e certezza della pena; LIBERISMO nel mercato; RICERCA/SVILUPPO INNOVAZIONE contro la inutile stabilità che è solo immobilismo; MERCATO DEL LAVORO LIBERO e basato su Meritocrazia e Produttività; Difesa dei Valori di LIBERTA', ANTIDOGMATISMO, LAICITA' ;ISRAELE nella UE come primo baluardo di LIBERTA'dalle invasioni. CULTURA ED ARTE come stimolo di creatività e idee; ITALIAN FACTOR per fare dell'ITALIA un BRAND favolosamente vincente. RISPETTO DELLE REGOLE E SENSO CIVICO DA INSEGNARE ED IMPORRE

giovedì 28 ottobre 2010

Londra:Keynes?!..E chi è?!

Un vecchio adagio keynesiano dice che tagliare la spesa pubblica in un momento di ristagno del ciclo è un grave errore, perché deprime la domanda e rallenta ulteriormente le attività economiche. E’ la via seguita da mister Obama, e tutto fa pensare gli costerà cara alle elezioni del Midterm. E’ la via che esagitati alla Paul Krugman vorrebbero seguire ancor più di quanto non sia avvenuto in America. Ed è la via che in Italia è sempre andata per la maggiore, con la differenza che noi l’abbiamo applicata sia negli anni di recessione sia negli anni di crescita.
Cioè praticamente sempre, visto che nell’intera serie storica dell’Italia repubblicana in tre soli anni è avvenuta una diminuzione della spesa pubblica in termini reali. Senonché, la buona notizia per i liberisti-mercatisti impenitenti come chi qui scrive, è che finalmente abbiamo le prove che il vecchio adagio keynesiano non vale più. Non ho detto che non vale mai, perché sarebbe una sciocchezza ideologica e grazie al cielo qui abbiamo tanti difetti ma dell’ideologia cerchiamo di fare a meno. Diciamo che l’evidenza di una riclassificazione degli episodi di crisi degli ultimi decenni nei paesi avanzati – curata per esempio da economisti come Alberto Alesina – nonché andamenti in corso oggi in alcuni Paesi, provano finalmente in maniera chiara che è una solenne sciocchezza, non tagliare il deficit pubblico quando le cose vanno male. Ad alcune condizioni.
Nei Paesi ad alto deficit e debito pubblico, e in quelli ad alta intermediazione pubblica del reddito nazionale cioè ad alta spesa pubblica e pressione fiscale, quando l’economia va male un taglio energico alla spesa pubblica non produce effetti depressivi, ma tonificanti. A patto che sussistano almeno tre condizioni aggiuntive. La prima è che l’economia privata abbia una buona componente orientata all’export di beni e servizi. La seconda è che i tagli siano – cioè appaiano agli operatori economici – come duraturi. La terza è che i contribuenti non sentano puzza di ipocrisia da parte della politica, non pensino cioè che quel che all’inizio si presenta come taglio diventerà domani aumento delle tasse.
A onor del vero, per essere corretti sino in fondo bisogna dire che questa conclusione non smentisce solo Keynes, ma anche un fondamento della teoria detta delle aspettative razionali, e cioè il principio di equivalenza ricardiana (anzi equivalenza Ricardo-Barro, per gli addetti) per il quale la scelta della politica di finanziare la spesa attraverso il debito o le tasse non avrebbe effetti sul livello della domanda.
Qual è l’ultima conferma evidente che impugnare la scure contro il leviatano pubblico è un bene? Viene dal Regno Unito. Dopo un’ottima crescita dell’1,2% del Pil nel secondo trimestre 2010, i più si aspettavano una frenata drastica nel terzo, in considerazione dei tagli energici alla spesa pubblica che tutti immaginavano sarebbero stati varati dal governo guidato da David Cameron. Al contrario, nel terzo trimestre la crescita si è rivelata più che doppia delle attese, dello 0,8%. Il ritmo superiore al 2% annuo in due trimestri consecutivi e del 2,8% sull’anno precedente è il migliore del Regno Unito da 10 anni a questa parte. Eppure, il governo Cameron ha varato la più dura manovra taglia deficit dell’intero dopoguerra britannico. Con il deficit pubblico che scenderà dall’11% di Pil quest’anno al 2%, entro soli 4 anni: ben 94 miliardi di euro di tagli alla spesa, 32 miliardi di nuove entrate. In media, ogni ministero subisce un taglio del 19%, ma la logica non è quella lineare adottata in Italia. Il governo Cameron sceglie le sue priorità. Dunque non è vero che le riduzioni in termini reali di spesa pubblica non si possono fare. Non è vero che, facendole, non si debba scegliere che cosa tagliare tantissimo e che cosa tagliare comunque, ma meno o anche per nulla.  L’età pensionabile viene innalzata di 2 anni da 64 a 66 a cominciare dal 2020, cioè 6 anni prima di quanto previsto, e 30 miliardi di pounds sono riservati a un piano straordinario per le infrastrutture , soprattutto ferroviarie. Ben 490 mila dipendenti pubblici usciranno dal perimetro degli occupati pagati dal contribuente britannico. Ci pensate, a qualcosa di simile in Italia? Non c’è solo la Germania, a indicare la via della crescita nel rigore attraverso l’alta produttività della manifattura e dell’export. Il segnale che viene da Londra è di grande speranza. Debiti pubblici galoppanti e banche centrali che li monetizzano sono un mix disastroso, che alla lunga malgrado le illusioni stataliste porta alla sconfitta politica, oltre che alla stagnazione economica.
Oscar GIANNINO

L’urticante Marchionne


Le parole di Sergio Marchionne, circa la miseranda condizione competitiva dell’Italia, possono essere sezionate, valutate, lette alla luce delle tante volte in cui i contribuenti hanno salvato la Fiat, annacquate, temute o occultate, ma hanno una urticante caratteristica: sono vere. Le reazioni della politica sono altezzose o pensose, con il balletto del partito preso già in tutù (Fini già volteggia e gli manca solo il pugno chiuso), ma hanno una cosa in comune: fanno finta di non capire che è in gioco la sorte degli stabilimenti Fiat in Italia. Mica solo Termini Imerese, già avviato alla chiusura, ma direttamente Mirafiori.
A Marchionne si può rispondere che i bilanci della Fiat andrebbero meglio non solo senza l’Italia, ma anche senza tutta quanta la produzione di autovetture in Europa, visto che i conti produttivi sorridono a parlare di trattori, camion e macchine brasiliane. Come si può rispondere che se egli ha trovato un’azienda mal messa, ma grande abbastanza da potere avere un ruolo nel mondo, lo deve al fatto che gli italiani si sono tassati, per decenni, in modo da reggerla in piedi. E non c’entrano i prestiti restituiti, perché quelli sono convissuti con una lunghissima storia di superbolli contro il diesel (quando la Fiat non ne produceva) e rottamazioni. Rispondere in questo modo serve a ripassare la storia, ma è del tutto inutile nel presente.
Per capire il problema mi servirò di un rimprovero mosso, a Marchionne, dai sindacati, secondo cui egli si sarebbe dimenticato di essere a capo di una “multinazionale italiana”. Peccato che le multinazionali sono soggetti che vivono nel mondo globale e parlano l’unica lingua accettata dai mercati: produttività e redditività. Ingiusto, capitalistico, spietato? Non direi, visto che l’alternativa sarebbe il capitalismo nostrano, fatto di sovvenzioni e agevolazioni, ovvero esattamente quello che si pretende di rimproverare a Marchionne. E il cielo ce ne protegga. Essendo questo il quadro, l’osservazione dell’uomo con il maglioncino è pertinente: cari italiani, siete fuori dal mondo. Una constatazione che sottoscrivo.
Salvo il fatto che, proprio partendo da quel presupposto, scrissi di quanto surreale fosse il referendum fatto fra i lavoratori di Pomigliano, dai quali si è preteso esprimessero un’opinione sulle conseguenze della globalizzazione. Come se Pomigliano fosse extraterritoriale, come se quegli accordi potessero rimanere confinanti dentro uno stabilimento. Era così evidente, l’insensatezza di una tale tesi, che poche settimane dopo gli imprenditori metalmeccanici hanno disdetto l’accordo firmato con i sindacati, giusto per non far fare a Marchionne la figura dell’unico in grado di ragionare e far di conto. Da quel referendum si dipartono molti errori, perché da una parte spacca definitivamente il sindacato, cancellando anche il moderatismo di Guglielmo Epifani e consegnando la Cgil alla Fiom, dall’altra cancella la sinistra, che va biascicando sciocchezze sul fatto che si trattava di un referendum aziendale, nel cui merito non si entra per rispetto dei lavoratori (ma va là!), così rinunciando al proprio ruolo politico di sintesi e proposizione.
Anche il governo resta con il cerino in mano, perché il fatto che Marchionne rilanci ad ogni passaggio successivo, qualche volta in modo ricercatamente provocatorio e sempre con un linguaggio ruvido, finisce col togliere forza all’asse costruito con gli altri due sindacati, e segnatamente la Cisl. Se non si hanno elementi per pesare sulle decisioni di Fiat ci si rassegna al fatto che saranno le politiche di Fiat a pesare sull’Italia, quindi sul suo governo. Guai, però, a dimenticare lo scenario complessivo, che spiega molte cose: Marchionne lavora su un orizzonte globale, il nostro dibattito politico si sviluppa come se ce ne potessimo stare fuori dal mondo. Il punto, pertanto, non è stabilire se si parteggia o si osteggiano le parole del manager, ma quali altre si vorrebbero usare per raccontare la storia di un’Italia che esce dall’incubo di una lunga e progressiva perdita di competitività (come documentano le serie storiche e come ha sottolineato lo stesso Silvio Berlusconi, in quel momento impegnato a parlare del costo dell’energia).
Non si tratta, allora, d’imbrigliare l’italo-canadese, né di mandarlo a quel paese (che si chiama mondo), ma di dire a noi stessi che il verbo dei cambiamenti strutturali non può essere coniugato al futuro, che si è già in ritardo se lo si coniuga al presente. Se continuiamo a raccontarci la favola dei diritti acquisiti e della precarietà da eliminare, siamo fregati. Se pensiamo ancora alle fabbriche come produttrici d’occupazione, e non di beni da vendere, le chiuderemo una a una. Se all’impresa chiediamo di risolvere problemi sociali passa in cavalleria il gran ritardo di ricerca, sviluppo e innovazione. Insomma, se non ci decidiamo a tornare sulla terra del presente faremo la fine dei palloncini che prima volano, poi s’ammosciano e infine cadono. Sicché, al netto di tutte le risposte puntute che a Marchionne possono essere date, il fatto che ci sia chi certe cose le dice a brutto muso (e nel salottino bene del politicamente corretto) non è un male.

sabato 23 ottobre 2010

A calci in culo ti mando fuori dall' Italia


Cacciamo dall’Italia chi brucia il tricolore
di Marcello Veneziani

Ho davanti agli occhi l'immagine di quel napoletano di Terzigno che usa il tricolore per insultare i poliziotti e poi lo brucia davanti alle telecamere della Rai. Mi vergogno per lui, da meridionale e da italiano; anzi mi vergogno di lui, e di coloro che fanno banda con lui. Preferiscono bruciare l'Italia più che i rifiuti? Meritano di vivere nei rifiuti più che in Italia. Hanno scelto di incenerire la loro nazionalità, anziché l'immondizia. Se esiste l'espulsione degli immigrati clandestini, dovrebbe esistere anche l'espulsione degli italiani che offendono il proprio Paese. Sulla loro carta d'identità alla voce nazionalità, togliete italiana e metteteci: immondizia. Meritano di essere rappresentati dall'immondizia.Finita la risposta emotiva dettata da quelle immagini, lascio da parte la bestialità omeopatica e rifletto. È gente che vive male, immersa nel brutto e nella miseria, dovete capire. È gente che nessuno ha educato e raddrizzato, gente che ha perso la vecchia fede un po' superstiziosa in Dio e nel timor di Dio, nella Madonna e in San Gennaro, nello Stato e nella patria, senza aver guadagnato nel frattempo il senso civico e il rispetto delle norme. Bruciano il tricolore perché l'hanno visto fare, è il linguaggio senza parole della tv; bruciano il tricolore perché danno ancora qualche importanza a quel simbolo, c'è tanta gente che non lo farebbe solo perché non lo prende più in considerazione, per costoro è solo uno straccio retorico del passato. In fondo questo denota che seppur polemicamente i bruciatori di tricolore si sentono ancora italiani, si percepiscono anzi traditi dalla loro madre patria, sono figli delusi e abbandonati... E c'è sempre l'alibi che dell'Italia sono sempre lorsignori, i padroni e i potenti, ad abusarne con il malaffare e il malgoverno; e lorsignori, agli occhi della plebe napoletana, sono globali e transnazionali, sono padani o single, mica sono volgarmente italiani. L'Italia resta la barca dei poveracci che non hanno altre identità da sbandierare. Signor Governo proceda con le compensazioni per i terreni, li risarcisca, so' muort e' fame. Sì, sono ragioni anche queste, ma non mi convincono del tutto. Possono funzionare da attenuanti, ma non assolvono. Spiegano ma non giustificano. Questa gente accetta di vivere nel letame, in mezzo alla delinquenza, a rischio di furti, malattie e sparatorie in piazza, ma poi diventa salutista con la discarica. E poi, vedendo quelle immagini di scontri mi sono ricordato del film Benvenuti al sud che spopola nelle sale cinematografiche: c'è una scena divertente in cui un intero paese di corregionali di Terzigno imbastisce una sceneggiata caricaturale del sud, fatta di violenza, scippi e guapparia, per prendere in giro una signora padana prigioniera dei luoghi comuni antiterronici. Ci siamo divertiti al cinema pensando alla finzione grottesca e alla simpatia terrona; ma ora vedendo quelle scene dei telegiornali, mi pare che la realtà abbia confermato e superato la caricatura. A volte, il sud sa essere perfino peggio di come viene presentato nei film comici o nelle rappresentazioni padane. O meglio, più che il sud, alcune sue parti.E allora torno a dire che mi vergogno di loro. Hanno bruciato la stessa bandiera che ha avvolto pochi giorni fa quattro ragazzi uccisi in Afganistan. Per quella bandiera, migliaia di italiani hanno dato la vita lungo un paio di secoli, e milioni d'italiani, emigrati o rimasti in patria, l'hanno onorata con sobrietà, facendo il loro dovere e lavorando onestamente. Prendersela poi con i poliziotti che si guadagnano il pane e difendono la legge è una carognata; sono figli del popolo anche loro, ricordava Pasolini ai contestatori figli di papà.

Quanto c'è in quel gesto incendiario di disprezzo accumulato verso l'Italia in questi ultimi anni? Parlo di un disprezzo a strati: il più vicino e più vistoso è lo strato dei lazzaroni meridionali che coltivano la polemica antitaliana e antirisorgimentale, mescolando motivazioni sacrosante ad alibi lagnosi o malavitosi. Lo strato seguente di disprezzo antitaliano è il cattivo esempio di alcuni settori nordisti e leghisti, quel rifiuto dell'Italia nel nome della Padania che diventa modello rovesciato anche per il sud. Ma c'è anche uno strato più antico che si vuol dimenticare: è il disprezzo antitaliano coltivato da chi confondeva italianità con fascismo, amor patrio con nazionalismo, identità nazionale con militarismo, dico quella sinistra internazionalista, operaista e snob che detestava le patrie, ieri nel nome del comunismo, preferendo le bandiere rosse alle tricolori; e che oggi le detesta in modo soft nel nome della globalizzazione. Tutti questi strati di disprezzo antitaliano alla fine vengono avvolti nel velo di disgusto di quanti considerano l'amor d'Italia e il tricolore un segno di provincialismo e di necrofilia. In questa piramide, le plebi napoletane contro l'Italia sono nel seminterrato, ad altezza di cassonetto; e forse per questo meritano più degli altri una mezza attenuante.Comunque viva l'Italia, al rogo l'immondizia.

Insignificanti distrazioni..


L’elemento primordiale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel deviare l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dei cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche, attraverso la tecnica del diluvio o inondazioni di continue distrazioni e di informazioni insignificanti…"
Noam Chomsky

venerdì 22 ottobre 2010

19 Ottobre 2010

Negli ultimi mesi, com'è noto, i rapporti tra Israele e la Turchia hanno subito un precipitoso deterioramento. I dissapori tra i due principali interlocutori di Washington sono stati il risultato del sanguinoso assalto alla nave Marmara dello scorso maggio, l'imbarcazione "pacifista" abbordata dalle teste di cuoio isrealiane, che ha fatto 9 vittime fra i turchi. A nulla sono valse le perplessità statunitensi verso il cambio di rotta fra le cancellerie di Ankara e Tel Aviv, la cui relazione sembra destinata ad un finale affatto pacifico. La Turchia, potenza in grande crescita, va contenuta, e allora il governo israeliano si sta dando da fare per stringere e approfondire i suoi legami con la Grecia, avversario storico di Ankara.

Il premier greco Papandreou sarebbe stato il primo a lanciare l'esca, stabilendo una serie di contatti con israeliani e amici dello stato ebraico, uomini d'affari, politici e ambienti dell'intelligence interessati a sviluppare uno scenario del genere. Papandreou, insomma, vorrebbe fare della Grecia il nuovo bastione della Nato nei Balcani e in Europa meridionale, un Paese cristiano pronto a prendere il posto dell'esercito turco. Le forze armate israeliane e greche negli ultimi tempi hanno svolto delle esercitazioni militari comuni e i cieli di Grecia offrono ampi orizzonti per l'aviazione di Gerusalemme. La grave crisi finanziaria di Atene ha bisogno dei floridi mercati di Gerusalemme: esportare gas in Europa è una delle ipotesi se il legame dovesse rinsaldarsi. Senza contare che la Grecia per gli israeliani può essere un canale di comunicazione in più con Bruxelles.

Questa realtà non farebbe altro che spingere la Turchia sulla strada di quel "neo-ottomanesimo" già enunciato dal ministro degli esteri del governo Erdogan: espansione nei Balcani, ingresso in Europa messo sotto formalina, nuove trattative e accordi col mondo arabo meno disposto a trattare con Israele. Eppure lo stretto legame economico e militare che per anni aveva unito turchi e israeliani aveva prodotto una interdipendenza che per entrambe i Paesi sarà difficile rimpiazzare. Ankara si era dimostrata un buon alleato, nella compravendita di armi o nel portare ambasce a Siria e Iran. E’ certo, comunque, che i sottili equilibri del Mediterraneo e del Vicino Oriente stanno cambiando. Per quanto la Turchia abbia rappresentato uno snodo centrale della strategia israeliana, la Grecia potrebbe offrire ampie e insondate prospettive geopolitiche per lo stato ebraico. Forse non tutti i mali vengono per nuocere.

Come tagliare il deficit del 9% di Pil: a Londra però Stampa E-mail
Scritto da Oscar Giannino
giovedì 21 ottobre 2010
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C’è di che riflettere, per i tanti politici italiani che da due anni a questa parte ripetono che tutto sommato ce la passiamo molto meglio dei Paesi anglosassoni, le cui banche all’aria hanno fatto esplodere il debito pubblico. E’ verissimo.

Ma da Londra è venuta una risposta di segno opposto allo statalismo krugmanista che continua a dominare l’America di Obama, vedremo con quale frenata elettorale nelle ormai vicine elezioni del Midterm. La manovra finanziaria varata ieri dal governo Cameron ha un solo aggettivo per essere compresa: epocale. Come abbattere il defit pubblico dall’11% di Pil quest’anno al 2%, entro soli 4 anni. La più grande correzione di finanza pubblica britannica dal secondo dopoguerra, per intensità e concentrazione temporale superiore addirittura per molti versi alla svolta thatcheriana: ben 94 miliardi di euro di tagli alla spesa, 32 miliardi di nuove entrate. In media, ogni ministero subisce un taglio del 19%, ma la logica non è quella lienare adottata in Italia. Il governo cameron sceglie le sue priorità. Le lezioni per l’Italia? Non è vero che le riduzioni in termini reali di spesa pubblica non si possono fare. Non è vero che, facendole, non si debba scegliere che cosa tagliare tantissimo e che cosa tagliare comunque, ma meno o anche per nulla.

Le spese per l’ambiente, ad esempio, e quelle per la cultura incassano i tagli maggiori, del 28%%. La difesa – di cui tanto si parla perché il Regno Unito resta pur sempre al quarta potenza militare mondiale – fanno strepitare i militari ma sono solo dell’8%. I tagli degli apparati ministeriali dell’Interno, della Giustizia e degli Esteri sono del 24%, ma della polizia solo il 16%. I tagli alle Autonomie sono solo del 7%, quelli alla Casa Reale del 14%. L’età pensionabile viene innalzata di 2 anni da 64 a 66 a cominciare dal 2020, cioè 6 anni prima di quanto previsto sino a ieri, ma 30 miliardi di pounds sono riservati a un piano straordinario per le infrastrutture, soprattutto ferroviarie.

C’è da imprarare anche quanto al metodo: a tutti i ministeri è stato riservatamente chiesto negli ultimi due mesi di preparare due bozze di tagli, uno pari al 25% e uno pari al 40% degli stanziamenti a legislazione invariata. Solo il ministero della Salute e quello allo Sviluppo erano esentati. Il risultato è stato non solo il coinviolgimento preventivo di ciascun ministro e del suo apparato nei tagli selettivi, ma soprattutto ha obbligato ciascuno di essi ad incorporare nelle aspettative un taglio che, alla fine, è stato inferiore a quanto il premier e il cancelliere dello Scacchiere aveva chiesto a ciascuno. L’esatto opposto di quanto di solito avviene in Italia, dove da decenni non c’è ministro che non tenti di sottrarsi con polemiche pubbliche in nome dell’eccezionalità del proprio portafoglio.

Quanto alle reazioni, Telegraph e Times hanno dato ampia eco alle prime valutazioni dell’Institute for Fiscal Studies, il più autorevole think tank undipendente britannico in materia di conti pubblici, secondo il quale la manovra è ancora insufficiente. Idem ha fatto il Wall Street Journal. Mentre persino il popolarissimo Sun, invece di cavalcare l’eslosione di malcontento e protesta che sarebbe avvenuta in Italia all’indomani, ha presentato ai suoi lettori la decisione con un secco titolo “Son dolori, ma ne vale la pena”. Ben 490 mila dipendenti pubblici usciranno dal perimetro degli occupati pagati dal contribuente britannico. Ci pensate, a qualcosa di simile in Italia?

Nell’Unione europea, il compromesso franco-tedesco appena celebrato sul nuovo patto di stabilità è di segno opposto, e come ho scritto su questo blog penso che le serie storiche mostrino con abbondanza di esempi che posso capire un patto non rigido, ma senza sanzioni automatiche non è credibile. Ci credo che Trichet punti i piedi, e che in Germania tutti i media abbiano sparato a zero contro la cancelliera Merkel, per aver dato il via libera al fronte lassista. Ma il segnale che viene da Londra è di grande speranza, per chi la pensa come noi ed è convinto che crescita e libertà si ottengano meglio con meno spesa pubblica e meno tasse. Finalmente qualcuno nel mondo anglosassone risolleva vigorosamente la bandiera dello Stato leggero, unica condizione perchè sia efficace con chi ha davvero meno del necessario invece di dispensare rendite a lobby di ogni tipo. E lo fa malgrado guidi un governo di coalizione coi Lib-Dems, non proprio una manica di liberisti. Cameron e il suo cancelliere Osborne mostrano che la soluzione Obama – debiti pubblici galoppanti e banche centrali che li monetizzano – è fatalmente destinata alla sconfitta politica, oltre che alla stagnazione economica.

Da:http://www.chicago-blog.it/

Sembra Blade Runner..è la realtà!



Lotta al terrorismo e strategie hi-tech
Con la "biometrica" gli americani mettono all'angolo i Talebani
Gabriele Cazzulini22 Ottobre 2010
Come disse una volta Mao, i ribelli sono come pesci che nuotano in un mare di uomini. Invisibili e dispersi: per debellare i Talebani in Afghanistan occorre una continua presenza sul territorio unita ad una serrata sorveglianza sull’intera popolazione. La potenza di fuoco delle armi, le grandi strategie militari, le alleanze politiche non sono più fattori discriminanti.
Per neutralizzare questa asimmetria sul piano militare, che sembra paradossale pensando alla potenza della macchina bellica degli occidentali, gli americani hanno messo in gioco il fattore tecnologico – che può veramente ribaltare la situazione perché la tecnologia è quanto di più irraggiungibile ci sia per i Talebani. Così in Afghanistan la Nato, d’intesa col governo di Kabul, ha iniziato ad utilizzare le tecniche biometriche nella prevenzione degli attentati, nel monitoraggio delle infiltrazioni talebane nella polizia e nelle forze armate, e in una sorveglianza più attendibile della popolazione nelle zone più critiche. In linea di massima, la biometrica è un insieme di tecniche per il riconoscimento dell’identità basate su caratteristiche comportamentali o fisiologiche.
Nel caso dell’Afghanistan, gli americani utilizzano il rilevamento dell’iride e delle impronte digitali. Il successo in Iraq, risale addirittura ai tempi dell’assedio di Fallujah del 2007, quando gli americani ricorsero alla biometrica per controllare ingressi e uscite dei civili e così individuare i ribelli. Il metodo è stato esportato in Afghanistan dal generale Petraeus. Ora è in corso un “tecno-censimento” degli abitanti delle aree a rischio. Il coordinamento è nelle mani della Biometric Task Force (Btf) istituita già nel 2004 presso il Pentagono. Per operare sul campo, la Btf ha inviato ai militari della Nato in Afghanistan un Biometric Automated Toolset (Bat). E’ un kit di dispositivi per il rilevamento dei dati e il loro invio nel server di raccolta. Il successo è innegabile: le prime postazioni per i controlli biometrici furono installate nell’area intorno all’aeroporto di Kabul. Il risultato fu una sensibile riduzione non solo degli attacchi terroristici, ma dei tentativi di attacco.
Nell’ottica della contro-guerriglia, questa è una vittoria indiscutibile. Tra Iraq e Afghanistan, nel solo 2009 grazie alla biometrica sono stati individuati e arrestati oltre quattrocento ricercati di primo piano. Anche politicamente è una strategia molto più sicura e mirata rispetto all’impiego della forza militare e della sua quota fissa di vittime civili, un effetto collaterale politicamente sgradevole. Per questo le truppe Nato stanno procedendo ad un censimento biometrico sempre più ampio della popolazione, così da creare una “terrorist watch list” basata su proprietà che non sono alterabili, come invece accade con liste basate soltanto sui nomi.
La guerra al terrorismo delinea un quadro sempre più hi-tech. I Droni aerei si muovono nei cieli dell’Afghanistan per intervenire sulle alture più impervie, le aree desertiche e i luoghi dove è più radicata la guerriglia talebana. Le telecamere fisse ad alta risoluzione che sorvegliano i centri più importanti iniziano ad essere dotate di scansione termica e infra-rossi per individuare ogni movimento sospetto. Infine il pattugliamento, finora il più esposto agli attacchi, si rafforza con la rilevazione biometrica per sradicare con massima efficacia gli elementi ostili – basta uno strumento grande come un iPod. Più che le armi, la tecnologia è la vera forza che può consentire all’Occidente di stroncare il terrorismo senza ricorrere ad altra violenza.

Non c'è rimedio Chiudete la RAI subito


di Marcello Veneziani
Impossibile perdere tempo ogni giorno dietro a conduttori che insultano i loro direttori. Mettiamo le tre frequenze sul mercato, al miglior offerente. Grottesche le mezze misure, le tirate d'orecchi e le sospensioni: meglio affidarsi alla libera competizione
Sciogliete la Rai. Non c’è altra soluzione. Lo dice uno che credeva al servizio pubblico e, pensate, perfino al ruolo educativo della tv. Ma l’Italia, il governo e il Parlamento non possono occuparsi ogni giorno delle parole di Santoro, dei contratti di Benigni, degli ultimatum di Fazio e degli arrangiamenti di Masi. Un Paese non può dividersi sui contratti agli artisti e sugli insulti ai direttori. Meglio chiudere baracca e burattini e lasciare campo al libero mercato. Le tre reti principali lasciatele ai migliori offerenti, con diritto di prelazione a cooperative di dipendenti, amatori e ispiratori della rete. Chi ama Raitre si paghi il canone per farsene carico; chi ama il suo rovescio faccia altrettanto con un’altra rete, per esempio Raidue, che non esiste più da quando finì l’era craxiana. O paghi un canone per Raiuno chi pretende un’informazione più ufficiale, meno schierata, tendenzialmente governativa a prescindere dai governi in carica. Non sono un seguace entusiasta del federalismo fiscale, ma in questo caso ci starebbe bene: ognuno paga la rete che vuole e la rete spende i soldi che i suoi utenti versano a lei. Più quello che ciascuna rete raccoglie di pubblicità sul mercato. È la fine del servizio pubblico, direte, è l’apoteosi della lottizzazione al suo stadio più esplicito e brutale. Sono d’accordo e mi dispiace un sacco. Ma non si può sopportare questo scempio quotidiano, questa porcata giornaliera, e questa impossibilità di venirne fuori. Ci sono censure vere che passano sotto silenzio perché fanno comodo un po’ a tutti i dignitari politici della Rai: spariscono dal video o non vi approdano gli irregolari che non appartengono ai blocchi di potere e ai partiti dominanti, compresi i partiti editoriali che ci sono in Italia. Non trovano spazio gli incontrollabili che, pur avendo un’identità precisa, non vanno in quota partiti e non prendono ordini dai poteri. Ci sono invece mezze censure, o censure presunte, che diventano oggetto di guerra, di vertenza e di teatro. La Rai fa molto più spettacolo fuori dai suoi schermi che dentro. Se la Rai è in trattativa con un divo «de sinistra» ed entrambi tirano sul prezzo, la trattativa viene presentata come una lotta per la libertà contro il fascismo e un’eroica resistenza contro un tentativo di censura. L’azienda non può cercare di contenere i costi, inguaiata com’è; se lo fa, vuol dire che usa a pretesto i soldi per censurare i programmi. Dammi centomila o ti sputtano come dittatore: questo in sintesi il «raicatto» della malavita organizzata in sinistra televisiva. E non c’è giorno che non emetta ultimatum come se fosse una potenza straniera pronta alla dichiarazione di guerra e all’attacco armato: dacci carta bianca o ti facciamo a pezzi. Un giorno o l’altro recapiterà a Berlusconi un orecchio, un testicolo e un baffo di Masi. No, non si può andare avanti a discutere se bisogna lasciar fare per non farsi accusare che si è tiranni o se censurare, fregandosene bellamente degli attacchi. Ancora più grottesche le mezze misure, le tiratine d’orecchi e le sospensioni con ampia facoltà di esternazione in video, che amplificano il martirio senza fermare l’abuso. Non è meglio, a questo punto, rompere le righe e affidarsi alla libera iniziativa? Lo dico da cittadino e da utente, ma anche da ex-consigliere e collaboratore della Rai. Se la Rai non fosse ingessata dai padroni di fuori e dai vigliacchi di dentro, se la Rai non fosse eterodiretta e succuba di troppi poteri, non giocherebbe sempre in difesa, ma andrebbe all’attacco. Smetterebbe di studiare come frenare Santoro, il predicozzo di Benigni o il «dossieraggio» di Report (lo chiamo così come loro chiamano le inchieste giornalistiche mirate, come quelle che riguardano Fini o Berlusconi). Lascerebbe loro libero campo, magari convogliandoli nella stessa rete per coerenza editoriale e garanzia dell’utente; ma poi andrebbe all’attacco. Il miglior modo per rilanciare la Rai e bilanciare le presenze moleste è rompere gli equilibri, svecchiare, innovare. Per esempio, una Raidue vivace si sarebbe accaparrata un Antonello Piroso, indipendentemente dalle sue opinioni politiche, dopo che è stato ingiustamente accantonato da La7 per far posto ad un altro bravo come Mentana. Dico ai lottizzatori cretini: la bravura fa più fatturato politico di un programma allineato che non vede nessuno. Una Raiuno vivace non lascerebbe il monopolio all’ottimo Vespa, che è sì la sua colonna principale, ma neanche San Pietro regge su una sola colonna, bensì su un colonnato: e allora magari avrebbe puntato al suo interno su Minoli, che ha il difetto di essere in quota se stesso; avrebbe cercato di portarsi il meglio che offre la concorrenza (facendo scouting nelle private). Avrebbe corteggiato spietatamente un Giuliano Ferrara, che si chiama fuori dal video. Avrebbe sperimentato in reti secondarie e in fasce orario marginali nuovi talenti interni, magari di diversa opinione; immetterebbe come editorialisti di rete o di testata firme giornalistiche mordaci della carta stampata. Invece il nulla. Lo so per esperienza personale, avendo vanamente proposto, quando ero in consiglio, non pochi innesti e perfino una rete ad hoc per testare emergenti promesse. Ma ai politici queste cose non interessavano: l’importante è vedere come sono trattati loro dalla Rai e i loro famigli, suocere incluse. Al partito Rai nemmeno: guai a toccare la mummia, se sposti un cameraman metti a rischio la democrazia Ma se non si riesce a stare sul mercato, a essere agili e innovativi, in sintonia con i propri tempi, se non si ha la possibilità sovrana di decidere, meglio tagliare la testa al toro e sciogliere la Rai. Questo braccio di ferro su quanto spazio concedere e fino a che punto sopportare il Nemico o l’Invasore, è tristemente ridicolo ed è pure noioso. Cambiate programma, per favore.


La Guerra contro gli Ebreidi Rupert Murdoch(Traduzione a cura di Laura Camis de Fonseca)
Rupert Murdoch
Nel vedere il Primo Ministro d'Israele attaccato dal Presidente Americano, la gente vede lo stato d'Israele più isolato.
Oggi nel mondo è in corso una guerra contro gli Ebrei. Nei primi decenni dopo la fondazione dello stato di Israele la guerra fu di natura convenzionale, l'obbiettivo diretto: distruggere Israele a mano armata. Ma ben prima che cadesse il muro di Berlino questo approccio era fallito. Allora giunse la seconda fase: il terrorismo. I terroristi presero di mira gli israeliani a casa e all'estero: dal massacro degli atleti israeliani a Monaco alla seconda intifada. I terroristi continuano ad attaccare gli Ebrei nel mondo anche oggi. Ma non sono riusciti ad abbattere il governo israeliano, nè a indebolire la determinazione degli israeliani. Ora la guerra è in una terza fase: è una guerra 'soffice' che vuole isolare Israele delegittimandolo. Il campo di battaglia è ovunque: nei mezzi di comunicazione, negli organismi internazionali, nelle ONG. In questa guerra l'obbiettivo è fare di Israele lo stato pariah. Il risultato è la assurda situazione odierna: Israele subisce sempre più l'ostracismo, mentre l'Iran, che non nasconde di volere la distruzione di Israele, si dota di armi nucleari apertamente, orgogliosamente, apparentemente senza tema di ritorsioni.
Per me che questa sia guerra è una ovvia realtà: ogni giorno i cittadini della nazione ebraica si difendono da armate di terroristi dotati di carte geografiche che rappresentano l'obbiettivo: un Medio Oriente senza Israele. In Europa gli Ebrei sono sempre più nel mirino di persone che hanno lo stesso scopo. E qui negli USA temo che la nostra politica estera sostenga a volte gli estremisti.
Due cose soprattutto mi turbano: la nuova preoccupante accoglienza che l'antisemitismo trova nella buona società, soprattutto in Europa. E l'incoraggiamento che alla violenza e all'estremismo giunge nel vedere il maggiore alleato di Israele prendere le distanze.
Quando noi Americani pensiamo all'antisemitismo, tendiamo a pensare alle volgari caricature e agli attacchi della prima metà del XX secolo. Oggi i filoni più virulenti di antisemitismo sembrano essere a sinistra. Spesso questo antisemitismo si ammanta della veste del legittimo disaccordo. Già nel 2002 il presidente di Harvard Larry Summers diceva: "mentre l'antisemitismo e le opinioni radicalmente nemiche di Israele sono tipiche di demagoghi di destra di basso livello culturale, opinioni profondamente anti-israeliane trovano sempre più sostegno in sfere intellettuali progressiste. Seri intellettuali sostengono o intraprendono azioni che sono anti-semite nei risultati, anche se non lo sono negli intenti". Summers parlava degli ambienti universitari, ma anche lui era, come me, preoccupato dagli sviluppi in Europa.
Ben lungi dall'essere rifiutato a priori, l'antisemitismo oggi ha il sostegno degli strati più bassi e più alti della società europea: dall'elite politica alle periferie-ghetto a preponderanza islamica. Gli Ebrei europei si trovano presi in questa tenaglia. Ne abbiamo visto un esempio quando il Commissario Europeo per il Commercio ha dichiarato che la pace in Medio Oriente è impossibile per colpa della lobby ebraica in America. Ecco le sue parole: "La maggior parte degli Ebrei hanno la convinzione - difficile definirla diversamente - di aver ragione. E non dipende dall'essere Ebrei religiosi o no. Anche gli Ebrei laici condividono la convinzione di avere ragione. Così non è facile avere una discussione razionale su quanto avviene in Medio Oriente neppure con gli Ebrei moderati." Il Commissario non ha indicato una specifica politica israeliana come fonte del problema. Il problema, così come lui l'ha espresso, è la natura degli Ebrei. Per poi aggiungere assurdamente, in risposta alle critiche, che ‘l'antisemitismo non ha spazio nel mondo contemporaneo ed è contrario ai valori fondamentali dell'Europa’. Naturalmente, è ancora al suo posto di Commissario Europeo.
Sfortunatamente si vedono esempi simili ovunque in Europa. La Svezia, per esempio, è stata a lungo sinonimo di tolleranza liberale. Ma in una delle sue maggiori città, a Malmoe, gli Ebrei denunciano crescenti episodi di intimidazione. E quando una squadra di tennisti israeliani venne per un torneo fu accolta da tumulti. Come reagì il sindaco? Equiparando l'antisemitismo all’antisionismo, e suggerendo agli Ebrei svedesi di prendere le distanze dall’operato di Israele a Gaza, se vogliono sentirsi più sicuri in città. Non occorre andar lontano per trovare altri segnali di pericolo: il governo norvegese proibisce a un costruttore di navi tedesco - che produce in Norvegia - di usare le acque norvegesi per l'immersione di prova di un sottomarino per la marina israeliana. E l'Inghilterra e la Spagna boicottano un congresso turistico a Gerusalemme. In Olanda, le statistiche della polizia mostrano un incremento del 50% di incidenti antisemiti.
Forse non dovremmo sorprenderci. In una tristemente famosa indagine di qualche anno fa gli Europei indicarono in Israele il maggior pericolo alla pace mondiale, dopo l'Iran e la Corea del Nord!
Oggi in Europa molti attacchi contro Ebrei, simboli ebraici e Sinagoghe sono condotti dalla popolazione musulmana. Sfortunatamente la reazione ufficiale, anziché render chiaro che tale comportamento non è tollerabile, troppo spesso è quella che abbiamo visto nel sindaco di Malmoe, che implica che gli Ebrei e Israele se la sono cercata. Quando i capi politici europei non si oppongono ai prepotenti, danno credito all’idea che Israele è la fonte dei problemi del mondo- e istigano altra violenza. Se questo non è antisemitismo, non so che cosa sia.
Questo mi porta al secondo punto: l'importanza del rapporto fra Israele e gli USA. Alcuni pensano che, se gli USA vogliono acquisire credibilità nel mondo islamico e operare in favore della pace, debbano prender le distanze da Israele. Secondo me è esattamente il contrario. Anzichè rendere più plausibile la pace, renderemmo più certa la guerra. Anzichè migliorare le condizioni dei Palestinesi, inasprire i rapporti fra gli USA e Israele garantirebbe la continuazione delle sofferenze dei Palestinesi. La pace che tutti vogliamo ci sarà quando Israele si sentirà al sicuro, non quando Washington si sentirà lontana dalla mischia.
Ora c'è una condizione di guerra. La guerra è condotta da molte parti. Alcuni fanno saltar per aria i ristoranti. Altri lanciano razzi sulle case dei civili. Altri si dotano di armi nucleari. Altri combattono la guerra 'soffice' tramite boicottaggi e risoluzioni di condanna di Israele. Ma tutti guardano con attenzione ai rapporti fra Israele e gli USA. Mi è piaciuto, a questo riguardo, il chiarimento del portavoce del Dipartimento di Stato la scorsa settimana, circa la posizione americana. Ha detto che gli USA riconoscono “la natura speciale dello stato di Israele, che è lo stato del popolo ebraico. E' un messaggio importante per il Medio Oriente. Ma se la gente vede un Primo Ministro ebreo attaccato dal Presidente americano, vede uno stato ebraico più isolato. Questo incoraggia soltanto quelli che preferiscono le armi ai negoziati.
Nel 1937 un certo Vladimir Jabotinsky faceva pressione sull'Inghilterra perché aprisse una via di fuga per gli ebrei che fuggivano dall'Europa. Soltanto una patria degli Ebrei poteva proteggere gli Ebrei d'Europa dall'imminente catastrofe, diceva. Con parole profetiche descriveva così il problema: "noi patiamo non tanto per l'antisemitismo delle persone, ma per l'antisemitismo della realtà, per l'inerente xenofobia degli organi sociali ed economici".
Il mondo del 2010 non è quello degli anni '30. I pericoli per gli Ebrei oggi sono diversi. Ma sono pericoli reali. E sono pericoli ammantati di una linguaggio odioso ben noto a chiunque sia abbastanza vecchio da ricordare la seconda guerra mondiale. Si tratta di pericoli che non si possono affrontare con successo se non capiamo che cosa sono: parte della guerra in corso con gli ebrei.

mercoledì 20 ottobre 2010

Pensiero zero by Celentano



di Vittorio Sgarbi
L’Italiano è precipitato. E si manifesta nelle idee, nella lingua e nella vita di Adriano Celentano. Un uomo titolare di un pensiero gratuito che fa pagare a caro prezzo. Una singolare antinomia che si manifesta tutta nell’articolo apparso sul Corriere di ieri, dal quale (...)(...) risulta una incondizionata ammirazione per un altro depensante come lui: Beppe Grillo, inventore di un partito che non è un partito. In realtà, non sapendo cosa pensare, Celentano, finge di attaccare e dà ragione a tutti. Così, nel suo argomentare sconclusionato, prima che sgrammaticato, riesce a dar ragione (e torto) contemporaneamente a Fini, a Berlusconi, a Bossi, a Maroni, a Rosy Bindi, a Di Pietro, a Santoro, a Veronesi, a Belpietro. Il suo procedere è ammiccante, fatto di gomitate e pacche sulle spalle, in un sostanziale perbenismo che è tipico dell’Italiano che non vuole grane. La spara grossa, ma cerca complicità, anche con colui che attacca. Alla fine dei vaniloqui, nel genere «io confido nella “DEMOCRAZIA della LIBERTÀ”», ovvero «tutto mi fa pensare che il vero democratico ha il senso della misura in ogni sua manifestazione», mi fa piacere che gli unici di cui parla male siano Masi e Sgarbi. È naturale che per uno che è andato in televisione per non dire nulla, ma con la leggenda del grande cantante che è stato, ottenendo compensi miliardari, un direttore della Rai che è obbligato a mandare in onda un programma con un conduttore imposto, negli orari stabiliti dalla magistratura, non è un direttore dimezzato che cerca di reagire a gratuiti insulti, soverchiato da una ridicola demagogia, ma un dittatore che vuole «limitare la libertà d’espressione». Come sempre, in chi parla a vanvera, la falsa indignazione, l’atteggiamento scandalizzato prevalgono sulla verità dei fatti. Così Celentano si dimentica di dire che il crudele dittatore che ha pensato di sospendere Santoro non ha ottenuto alcun risultato. Perché, con tutto il vittimismo di Santoro, la sospensione è stata sospesa. Di cosa parla, dunque, Celentano? Poi, reduce da una delle sue tante noiose serate in cui sta in casa e guarda la televisione, si occupa di me, e scrive che sono «in ritardo di qualche decennio» non avendo «la minima cognizione di cosa significhi la parola “INNOVAZIONE”». Così, non accorgendosi di annaspare nella contraddizione e di riconoscere inconsapevolmente l’espressività del turpiloquio, cerca di spiegare ciò che non capisce. Premette: «Democrazia vuol dire anche perfezionare i toni durante un dibattito». Spiega, di me, che «in netto contrasto con l’arte di cui faccio professione, disconosco invece un elemento fondamentale che è insito nell’ARTE e che è appunto IL CAMBIAMENTO». Afferma che dal 1989 non sono cambiato di una virgola, faccio sempre le stesse cose. Cioè insulto. Così, per essere diverso e «perfezionare i toni», pensa bene di imitarmi: «Ma vaffanculo Sgarbi, adesso ci hai proprio rotto i coglioni!!!». Non potevo sperare in un migliore allievo, e devo ringraziarlo dell’attenzione e anche del privilegio di non leccarmi il culo come fa con Fini, Grillo, Berlusconi, Maroni, Bindi, Santoro. Poi dice a me: «Il tuo prevedibile e nauseante sbraitare è un registro vecchio e stravecchio come la guerra del ’15-18. Cosa aspetti a cambiare? Lo sai almeno in che anno siamo?... Poi non piangere se in televisione non ti invita più nessuno». E qui non lo seguo. Io vado in televisione tutti i giorni, esprimo il mio pensiero, spesso in modo pacato, ogni tanto incontro un cretino a cui, in modo schiettamente «rock» e talvolta «rap», dico quello che si merita per evitare che continui a dire scemenze. È il caso di «fascista, fascista, fascista», all’indirizzo di chi ignora che in democrazia, come sa perfino Celentano, i partiti sono la libertà. Perché, non essendoci un partito unico, uno può scegliere di essere liberale, repubblicano, socialdemocratico, radicale, restando indipendente. Come lo furono, in condizioni difficili, Gramsci e Croce. Appartenere a un partito non vuol dire essere servi o dipendenti, vuol dire scegliere idee e valori. Se, per affermarlo, devo interrompere uno che dice le banalità alla Grillo, il quale per essere libero, contro i partiti, fa un partito, lo interrompo con forza. Una differenza fra me e Celentano, nell’andare in televisione, invitato, è che io, non volendo rinunciare a essere Sindaco, orgogliosamente, per dignità civile, non vengo pagato. Celentano invece il suo pensiero lo mostra soltanto a pagamento, e senza offrire una merce particolarmente pregevole. Io continuerò ad andare gratis, perché voglio esprimere il mio pensiero, non venderlo. Ed è per questo che sto dalla parte di Masi, e mi fanno ridere le false vittime come Santoro e i piagnoni come Fazio. Dunque, esiste una pseudo-norma per cui chi fa politica non può essere pagato dalla Rai. Per questo, io, Sindaco, non vengo pagato. Benigni, che non ha ruoli, ma fa politica, per esprimere le sue libere idee è stato invitato a Sanremo e pagato 370mila euro per mezz’ora. Ora, per andare da Fazio, a esprimere le sue originalissime idee, ha chiesto «solo» 250mila euro. Per evidenti ragioni economiche, Masi non ha firmato il contratto e, per le stesse ragioni, non invita tutti i giorni Celentano, il cui pensiero è «caro». Ma la traduzione di questo elementare impedimento è: «Alla Rai hanno paura dei contenuti». Fazio fa la vittima, e soltanto adesso apprendiamo che Benigni ha dichiarato di essere disponibile ad andare anche gratis. Stiamo a vedere. Invito a farlo anche Celentano, in un confronto con me a Domenica In o dove vuole lui. Così possiamo vedere chi ha qualcosa da dire, e come, e in che lingua. Intanto io suggerisco, come già ho fatto, al direttore Masi, non di ospitare gratuitamente Benigni o Celentano, ma di offrire loro una cifra equa, solo dieci volte (non 250) lo stipendio mensile di un professore di italiano, 15mila euro, a puntata. Darebbero una prova di serietà e di civiltà, non invocando le leggi di mercato e il loro valore, ma facendo quello che faccio io, che vado gratis, e valgo più di loro.

martedì 19 ottobre 2010

quando lui ha ragione(?!) e noi torto..

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Annamaria Fornara ha tre figli, un maschietto e due ragazze. Il suo ex marito, Said Soukri, l’ha conosciuto agli inizi degli anni Novanta quando lo intervistò per parlare di immigrazione. Iniziarono a frequentarsi, si sposarono, e la loro sembrava una vita tranquilla come tante. Poi l'uomo ha iniziato ad andare sempre più spesso in moschea, imponendo ai familiari l’osservanza dei precetti religiosi musulmani e chiedendo alle moglie di convertirsi. Quando Annamaria ha scelto di separarsi, Said ha lasciato l’Italia portandosi via due ragazzi in Marocco. Ma la donna non si è arresa e ha raggiunto Casablanca per avere giustizia. Le abbiamo chiesto di raccontarci com’è andata e a che punto è questa vicenda.

Annamaria, come sta andando il processo in Marocco?

Sta andando bene nonostante le difficoltà iniziali. La Convezione dell’Aja per i diritti dell’infanzia purtroppo non viene ancora applicata da Italia e Marocco, nonostante sia stata sottoscritta e ratificata da entrambi i Paesi. Ma ci sono delle incongruenze legislative, per esempio sulla cittadinanza da attribuire ai miei figli.

Si dice che il Marocco stia sperimentando un diritto di famiglia innovativo rispetto al resto del mondo islamico

Se in passato il padre aveva tutti i diritti sui figli ora anche la madre ha voce in capitolo. E' a lei che vengono affidati i minori in prima battuta in caso di separazione. Peccato che nei prossimi dieci anni questa legge verrà applicata accanto a quelle tradizionali... C’è poi un ulteriore difficoltà: in Marocco non si fa differenza fra separazione e divorzio; alle autorità marocchine non è bastato far seguito alla sentenza sull’affido dei miei figli, hanno dovuto “delibarla”, cioè emetterne un’altra uguale ai sensi della legge marocchina. Questo ha allungato i tempi processuali. Aspetto a giorni la sentenza definitiva.

Qual è il suo stato d’animo?

Se la legge dice che i figli devono essere affidati alla madre, nonostante tutto, sono fiduciosa.

Che atteggiamento hanno avuto le autorità marocchine?

Non sono state un ostacolo se è quello che vuol sapere, lo scontro fra Italia e Marocco per adesso è stato evitato. Devo dire che a sostenermi c’è anche il centro culturale islamico di Omegna: hanno condannato mio marito e promosso una manifestazione pubblica a mio favore.

E quelle italiane?

C’è stata una buona risposta, sia a livello locale, sia da parte del nostro consolato a Casablanca, sia alla Farnesina. Non avrei mai sperato tanto.

Che farà se non dovesse farcela a riportare a casa i ragazzi?

Non ho un “Piano B”. Sono qui per riportarli indietro e basta. Quando torneremo avremo tempo per parlare di Dio e dei diversi modi per pregarlo, in modo che ognuno sia libero di compiere le proprie scelte sulla base della fede. Ma in fondo, da quando ci siamo sposati, in casa nostra c'è sempre stato spazio per discorsi del genere.

Ecco, appunto, cosa vuol dire vivere in una famiglia musulmana?

Se la famiglia garantisce il rispetto delle diversità – com’è accaduto crescendo ai miei ragazzi – e se il capofamiglia si adegua a questo clima, credo che si tratti di una opportunità di fare scelte consapevoli, un'opportunità che pochi hanno a disposizione. Se invece il rispetto non c'è diventa una spada di Damocle, è solo una questione di tempo.

Quand’è che ha capito che la relazione con suo marito si stava deteriorando?

Dalla fine del 2008 i rapporti fra la mia figlia maggiore e il padre hanno raggiunto momenti drammatici e riconosco che allora non gli diedi il giusto peso. Volevo solo mantenere unita la mia famiglia al di là di tutto. Nel 2009 il mio ex marito mi ha proposto di convertirmi all’Islam. "Non voglio obbligarti – disse – ma se non ti converti non possiamo più restare assieme".

Che consigli darebbe a chi vive una condizione simile alla sua?

Di prendere i propri figli e trasferirsi in un luogo sicuro, protetto, da cui eventualmente discutere con calma e serenità. Occorre tempo per leggere e studiare le leggi, gli usi e i costumi del Paese natale del coniuge, se non si conoscono. Probabilmente sembrerò poco diplomatica nel dire queste cose, ma le mie ferite sono ancora fresche e sanguinati.

Ci sono donne che ignorano i rischi a cui vanno incontro?

Una ragazza italiana che si sposa tende a dare per scontato molte cose che invece all’interno di una cultura diversa dalla nostra non lo sono e hanno un peso enorme. Penso all’autorità sui figli davanti alla legge o alla libertà religiosa. Ma credo che questo discorso valga per qualsiasi cultura, si parli di Europa o Sud America. La legge italiana dovrebbe permettere ai figli nati da matrimoni misti di fare una esperienza diretta delle culture di provenienze dei genitori. Ci sono donne che oltre alla persona che amano sposano anche il mondo da cui proviene.

Che mondo è quello islamico?

Non ci sono prescrizioni per gli uomini che vogliono sposare donne cristiane o di fede ebraica; sembrerebbe, dico per dire, un atto di generosità. In realtà si dà per scontato che la donna, presto o tardi, seguirà la religione del marito, e ovviamente questo potrà avere delle ripercussioni sulla educazione religiosa dei figli. Non so se sia possibile normare una situazione del genere, quello che si può fare è rendere applicabile la Convenzione dell’Aja. Se lo fosse a quest’ora le scriverei dal mio pc di casa litigando con i ragazzi che vogliono usarlo per giocare.

Lei che percezione ha dei rapporti tra Islam e Occidente?

L'islam è vicinissimo, a noi e ai nostri figli, e il dialogo non è un’opzione ma una necessità assoluta. Ci vivo a contatto da quasi vent’anni e devo dire che dopo l’11 Settembre sono cambiate molte cose, in peggio. C’è stata una chiusura da entrambe le parti. Ci sono ambienti del mondo islamico che vedono ogni passo verso l’Occidente come un attentato alla propria fede.

E Casablanca?

Qui si sente ancora voglia di cambiamento. Ogni casa, ogni singolo appartamento, ha una antenna parabolica, e alle donne comincia a stare stretto il ruolo che hanno avuto per generazioni. Sanno che appena al di là del mare le cose funzionano diversamente. Sono convinta che saranno le donne a cambiare questa realtà. Saremo noi.

C’è uno spiraglio di luce?

Qualche giorno fa ho potuto rivedere i miei figli.

lunedì 18 ottobre 2010

L'europa nel suo piccolo si incazza...



di
Fiamma Nirenstein 18 Ottobre 2010
Il discorso della Cancelliera tedesca Angela Merkel sul modello multicultura­le fallito, non è una resa, ma una sfida. Una bella sfida nella forma non di uno squillo di tromba, ma di un pacato richia­mo al buon senso.
Di certo la Cancellie­ra, per come la si conosce, liberale e mo­derata, non intende con la sua uscita ten­tare di chiudere le porte della Germania o dell'Europa; né sarebbe possibile bloc­care d'un tratto l'immigrazione e più in generale quei processi di globalizzazio­ne che sono parte del mondo attuale, del nostro mondo. Ma proprio la sua fac­cia tondeggiante eppure dura, i suoi mo­di di usuale cortesia che ci propongono la questione in maniera urbana, il suo mettere avanti la preoccupazione dei giovani da qualificare per un degno lavo­ro, i nostri ragazzi che non sanno che fa­re di se stessi; il parlare del disagio bibli­co della babele di un mondo in cui i tuoi vicini di casa non hanno idea della tua lingua; il disegnare ghetti alieni e total­mente diversi l'uno dall'altro, nazionali­tà per nazionalità, dove quasi non ci si pone affatto il problema di integrarsi, ma solo quello della sopravvivenza e della chiusa conservazione di se stessi, identificata con quella della propria cultura... tutto questo riesce a focalizzare il problema meglio di tante analisi sociologiche.
E ci dice che certe culture molto spesso non hanno nessuna intenzione di mescolarsi con la nostra, qualsiasi sia il nostro atteggiamento, con la migliore buona volontà. Parigi è ormai una città dove più di 200mila persone vivono in famiglie dove si pratica la poligamia, in Italia trentamila donne sono state sottoposte a mutilazione sessuale, i tribunali islamici, una novantina solo a Londra, comminano pene impensabili. Proprio lei, l'Angela, ha qualche speranza di proporre il problema proprio perché non usa i toni di Gert Wilder, che pure ha buone ragioni ma che viene respinto dall'opinione pubblica politically correct.
La cancelliera può porre il problema come forse l'avrebbe posto Alexis de Tocqueville: nel 1830 come si sa egli propose al nostro mondo una descrizione acuta e stupita di chi vede per la prima volta in America ruotare all'impazzata un universo molto veloce fatto del mosaico policromo in cui schizzano tutte intorno le tessere che stanno creando una società liberale e democratica. L'avidità, la capacità, la volontà: ma anche lo spirito comune. Torme di uomini che venivano da tanto lontano alla costa della Nuova Inghilterra, dice Tocqueville, presto forgiarono un linguaggio uniforme sulla base della comune lingua inglese, tutti volevano far valere l'educazione, il fatto di appartenere alle classi agiate della loro madrepatria, tutti pur nel bisogno, sulla terra vasta e selvaggia, affrontavano la novità con la convinzione di farlo anche in nome di un'idea, basilarmente quella dei pellegrini puritani.
"La passione inquieta e ardente", "L'avidità verso l'immensa preda" non dimenticò di far fiorire le associazioni civili, i giornali, le poste. Tutto questo insieme di circostanze puntava in una direzione sola: l'invenzione della democrazia. È qui, e non tanto nel fattore linguistico oggi più facilmente affrontabile con i computer e i mezzi di comunicazione di massa, che ha completamente fallito il nostro modo di guardare all'immigrazione. Ci siamo innamorati dei colori e dei costumi, abbiamo pensato che l'intrinseca bellezza di vedere un bambino scuro e uno chiaro insieme magari sorridenti di fronte all'illusoria macchina fotografica degli United Colors of Benetton rispecchiasse un'aspirazione comune, quella della vita in comune non ovunque, ma da noi: nella democrazia. È questo ultimo termine che è spesso distante e percepito come ostile dalle culture che ospitiamo.
Noi siamo forti: la cultura democratica nostrana ha divorato, per esempio, la nostra cultura contadina degli anni ’60, con quel "genocidio culturale" di cui parlava Pasolini. Ma si trattava della stessa cultura bianca, la stessa mamma, lo stesso cibo, gli stessi costumi sessuali, con piccole trasformazioni apparenti. Invece, nella globalizzazione che avviene nella odierna società democratica ci sono dei corpi i cui odori, sapori, colori sono totalmente diversi, distanti, e soprattutto non gli piacciamo affatto: della democrazia non ne vogliono proprio sentir parlare, non gli interessa, non l'hanno mai vista a casa loro, non si capisce perché dovrebbero conformarsi alle sue regole di cui la maggiore è quella della libertà individuale.
Proprio il contrario di quello che indica per esempio l'Islam come bene supremo. Altre sono le loro regole, non quelle della democrazia. In Germania, terra della Merkel, un'avvocatessa di Berlino che è stata pestata con la sua cliente musulmana che voleva divorziare, ha subito un'aggressione anche nel metrò e ha dovuto chiudere lo studio. Sempre in Germania, l' Idomeneo di Mozart è stato cancellato per minacce islamiste; il direttore del quotidiano Die Welt Roger Koppel ha fermato per pura fortuna la mano di un giovane musulmano che stava per pugnalarlo nel suo ufficio. In Germania, in Inghilterra, in Francia non si riescono più a rintracciare le "ragazze scomparse", divenute schiave in seguito a matrimoni combinati. A Stoccolma è di gran moda, ha scritto Giulio Meotti, una t-shirt che i ragazzi musulmani indossano: porta la scritta "2030 poi prendiamo il controllo". Sono solo episodi. È la democrazia, stupido.
Quando siamo di fronte a una cultura come quella islamica, ci sono delle forme di irriducibilità che investono questioni legali e morali che hanno sfumature diverse. Per noi "immigrazione" è una parola sacra, infarcita di sensi di colpa, di generosità, di religione e di memoria liberal o di sinistra. Ma anche democrazia è una parola sacra, prima ancora di vivibilità, che pure la gente che vive nei quartieri adiacenti quelli di immigrazione legittimamente pone. Il nodo è tutto là. Forse la Merkel, da democratica tedesca, europeista, borghese, complessata e timida come sa esserlo ogni tedesco colto, ce l'ha fatta a sollevare la questione.
(Tratto da Il Giornale)

domenica 17 ottobre 2010

Il mondo dei sogni è meraviglioso....

... confonderlo con la realtà è pericoloso.



a sin, in alto: Angela Merkel, Thilo Sarrazin
in basso una vignetta per riflettere

BERLINO
I conservatori tedeschi seppelliscono l'idea del multiculturalismo. E a officiare la cerimonia è la cancelliera in persona. «L'approccio multiculturale è fallito, completamente fallito», ha detto ieri Angela Merkel, abbandonando per un attimo la sua tradizionale cautela verbale. In passato abbiamo chiesto agli immigrati troppo poco, è giusto pretendere che imparino il tedesco, ha scandito a Potsdam davanti i giovani della Cdu/Csu. L'Islam, comunque, è una parte integrante della Germania, ha corretto il tiro Frau Merkel, ripetendo una discussa frase del presidente federale Christian Wulff.
«Il multiculturalismo è morto», aveva detto venerdì sera Horst Seehofer, leader della Csu (il partito bavarese gemello della Cdu). «Noi ci schieriamo a favore della cultura predominante tedesca e contro il multiculturalismo», aveva aggiunto, ripescando un termine - Leitkultur, cultura predominante - apparso nel dibattito politico tedesco dieci anni fa.
La Germania discute animatamente di integrazione da fine agosto, da quando, cioè, è uscito un provocatorio libro scritto dall'ex banchiere della Bundesbank Thilo Sarrazin. A ravvivare il dibattito ci hanno pensato nei giorni scorsi prima le frasi di Seehofer, che ha chiesto di sospendere l'arrivo di nuovi immigrati dalla Turchia e dal mondo arabo, poi i risultati di due studi: per il primo quasi il 60% dei tedeschi vorrebbe limitare l'esercizio della libertà di religione dei musulmani; per il secondo circa il 41% dei giovani turchi auspica di dividere il pianerottolo con un tedesco, mentre meno del 10% dei giovani tedeschi vorrebbe un vicino turco.
La folta comunità turca in Germania teme che la situazione possa sfuggire di mano: «Ho paura, da settimane mi minacciano dicendomi che sono uno straniero di merda, sebbene io sia un cittadino tedesco - ha raccontato alla «Welt» Kenan Kolat, presidente della comunità turca in Germania - È come all'inizio degli Anni 90 col dibattito sul diritto d'asilo, poco dopo ci furono degli incendi».
Qualcosa, in realtà, nel frattempo è cambiato: la Germania non è più un Paese di immigrazione, ma di emigrazione. Nel 2009 hanno lasciato la Repubblica federale 734.000 persone, mentre 721.000 vi sono emigrate; i turchi che hanno abbandonato la Germania sono stati 10.000 in più rispetto a quelli che vi sono arrivati. Il che sembra paradossale, visti i toni dell'attuale dibattito, che si spiega anche con ragioni politiche. La Cdu, ma soprattutto la Csu di Seehofer, tentano di recuperare l'elettorato conservatore, deluso dal rinnovamento imposto da un'Angela Merkel su cui si moltiplicano le indiscrezioni: da giorni girano voci secondo cui, se a marzo la Cdu dovesse crollare alle regionali in Baden-Württemberg, Merkel potrebbe farsi da parte e lasciare la cancelleria al ministro della Difesa, Karl-Theodor zu Guttenberg, che parla però di idea «bizzarra».
Il presidente turco Abdullah Gül ha provato ad abbassare i toni, invitando i suoi connazionali in Germania a imparare il tedesco «correntemente e senza accento». Il dibattito, però, prosegue. «La Germania non è un Paese d'immigrazione» e bisogna evitare che la carenza di personale altamente qualificato diventi un pretesto per «un'immigrazione incontrollata», ha rilanciato Seehofer in un piano in sette punti sull'integrazione. Le sue parole suonano tutt'altro che nuove. «L'integrazione è possibile solo se il numero degli stranieri che vivono da noi non continuerà a crescere; bisogna evitare un'immigrazione illimitata e incontrollata». Parola di Helmut Kohl, alla sua prima dichiarazione da cancelliere al Bundestag. Era il 1982.

chiacchiee nucleari e utopie politicanti


"...Quando le centrali saranno pronte, dopo la realizzazione del Ponte sullo Stretto, la chiusura dei lavori sulla Salerno-Reggio Calabria, la ricostruzione de L’Aquila e l’istituzione di carceri speciali per i magistrati non allineati, l’umanità sarà estinta. E a Veronesi, che è un meraviglioso vegetariano immortale, toccherà solo tirare giù la saracinesca di un’Agenzia che per secoli non ha avuto di cosa occuparsi."

Guarda bimbo mio ..un politico siciliano...


di Salvo Ficarra e Valentino Picone

«Chi è quell´uomo circondato da tutta quella gente?», chiese il bambino. E l´adulto rispose: «Quello? Un politico siciliano molto importante». E il bambino: «Che cos´è un politico siciliano?». Allora l´adulto cominciò: «Il politico siciliano è una persona che viene scelta da noi siciliani per far funzionare al meglio le cose. Si occupa di costruire le scuole, gli ospedali, le strade, di mantenere pulite le città, di fare funzionare gli autobus� Il politico siciliano è un uomo che mette al servizio della comunità il suo tempo e le sue capacità per fare andare tutto per il verso giusto».Il bambino ascoltava in silenzio e l´adulto continuò: «Il politico siciliano quasi sempre si muove in gruppo, veste elegante e scivola tra la gente, compiaciuto e disinvolto. Elargisce strette di mano, distribuisce speranze, regala conforto e ride. Ride sempre! Il politico siciliano ride a tutti. Ascolta tutti. Parla con tutti ma di tutti sinni futti!Il politico siciliano vive nei palazzi della politica, e da lì tutto controlla. Il politico siciliano è un essere mitologico, metà uomo e metà poltrona. Il politico siciliano si occupa della cosa pubblica sistemando prima di tutto le cose private. Il politico siciliano di mestiere fa il politico, e lo fa per tutta la vita. Il politico siciliano non ha idee ma strategie; non pensa ma calcola; non governa ma gestisce. Il politico siciliano è il nuovo filosofo del terzo millennio che, con la lanterna, ogni giorno cerca voti. Il politico siciliano, infatti, si nutre di voti, prediligendo quelli delle classi meno abbienti. Il politico siciliano è sempre in campagna elettorale. I suoi, però, non sono elettori ma clienti. Il politico siciliano sistema le persone con la stessa cura con cui si sistemano gli oggetti, cosicché, quando gli servono, sa dove trovarli. Il politico siciliano è un fungo rarissimo e raffinatissimo che riesce a rimanere attaccato al voto di un precario per un periodo di tempo lunghissimo.Il politico siciliano è tascio! O zauddu, come dicono a Catania. Però il politico siciliano non è un tascio classicamente inteso, ma un tascio che si è evoluto col tempo. Il tascio, classicamente inteso, è caratterizzato da tre inequivocabili elementi: la Punto Abarth con alettone e led retroilluminati, modello Supercar; l´adesivo dell´asso di mazze appiccicato sul portabagagli; e lo stereo a tutto volume. Il politico siciliano, invece: al posto della Punto c´ha l´auto blu, al posto dell´asso c´ha lo stemma «Regione siciliana», e al posto dello stereo c´ha la sirena a tutto volume. Ma� sempre tascio è! L´unica cosa che accomuna le due tipologie di tascio è che entrambi se ne vanno sgommando!Il politico siciliano è un esperto giocatore: meticoloso nel fare alleanze, sfrontato nel romperle e velocissimo a passare da una parte all´altra. Il politico siciliano cambia colore in continuazione, si mimetizza con disinvoltura, pazienta se c´è da pazientare, attende se c´è da attendere, ma, una volta individuato il carro del vincitore, ci sale sopra con balzi fulminei.Il politico siciliano è un animale di razza. Sa essere falco, ma sa essere anche colomba; conosce cani e porci; e non disdegna l´amicizia dei pidocchi semplici, pur essendo ormai un pidocchio arrinisciutu. Il politico siciliano è un enorme elefante che ama nutrirsi dei parassiti che lo circondano, non ha paura dei topolini, ma ha terrore delle cimici. Il politico siciliano è un po´ sfortunatello. Capita sempre in feste e compleanni di gente che poi puntualmente arrestano.Il politico siciliano� non è siciliano!Il politico siciliano fa il siciliano di mestiere, ma non gliene frega niente della Sicilia. Il politico siciliano, spesso, parla di cosa pubblica ma pensa a cosa nostra. Il politico siciliano, pensando a cosa nostra, ha fatto diventare pure gli alberi e i fiori di cemento armato. Il politico siciliano, se fosse siciliano, non permetterebbe a quell´altro di costruire una piramide a campata unica tra Messina e Reggio Calabria. Il politico siciliano, se fosse siciliano, non permetterebbe a nessuno di speculare sulla salute dei siciliani. Al politico siciliano dovrebbe essere vietato per legge di pronunciare la parola Sicilia.Il bambino, che aveva ascoltato in silenzio tutto il tempo, quando capì che l´uomo aveva finito, chiese: «Ma è una cosa bella o una cosa brutta essere un politico siciliano?». «Questo non lo so — rispose l´adulto — ma è certo che ai siciliani il politico siciliano piace tantissimo». «Ma i politici siciliani sono tutti così?», domandò il bambino. «Non tutti — concluse l´adulto — ma sicuramente tutti quelli che in questo momento sa stannu sintennu!». 

Contro l' Hitler dei nostri giorni

Il disco con il proclama di Winston Churchill contro Hitler scala le classifiche americane. Batte le vendite di cantanti famosi come Eminem e Rihanna. Buon segno, l'America pare stia risvegliarsi dal sonno targato Obama.


Obama, ascolta Churchill !

NEW YORK - Avviso al navigante Obama: se vuole tornare a cavalcare l'onda dei consensi, forse gli conviene ritirar fuori dai sotterranei della Casa Bianca quel busto di Winston Churchill che George W. Bush aveva piazzato nello Studio Ovale e che lui ha sostituito con Martin Luther King. Mossa sbagliata: proprio adesso che il vecchio Winston è tornato popolarissimo tra quei giovani che Barack spera di riconquistare. Così popolare da finire addirittura in hit parade.

Possibile? Beh, certo, il ritornello non è accattivante e malizioso come quello di "Love the Way you Lie", il tormentone di Eminem e Rihanna, quello che recita impudentemente: "Tu stai lì e mi guardi bruciare/Ma va bene così/Mi fa male ma mi dà piacere". Che volete, erano altri tempi, e il primo ministro d'Inghilterra piuttosto che col problema della violenza domestica doveva vedersela con la violenza che sembrava inarrestabile di un certo Adolf Hitler. Però sentite un po' che versi: "Se noi falliremo/allora l'intero mondo/Stati Uniti inclusi/incluso tutto quello che conosciamo/e a cui vogliamo bene/affonderà nell'abisso/di un nuovo Medio Evo/reso ancora più sinistro/e forse ancora più lungo/dalle luci della scienza pervertita...". Un pistolotto che neppure gli U2 degli anni d'oro avrebbero saputo sfoderare.

E infatti stiamo parlando di "Their Finest Hour", uno dei suoi discorsi più emozionanti e lucidi, 18 giugno 1940, quattro giorni dopo la caduta di Parigi, l'Europa che sembra finire nelle braccia del mostro che avanza e lui, Winston Churchill, che disegna l'Apocalisse da scongiurare. Beh, 70 anni dopo, "Their Finest Hour" batte "Love the Way you Lie", e il vecchio Winnie, con il piccolo aiuto della Banda della Raf, la gloriosa Royal Air Force, nella classifica della sua Inghilterra batte perfino Eminem in coppia con Rihanna.

Il disco si chiama Reach for the Skies e subito, da un lato all'altro dell'Atlantico, è diventato fenomeno. Per la verità la partecipazione speciale dell'illustrissimo premier è limitata a soli due brani, "Their Finest Hour" e "Never in the Field of Human Conflict": il resto è tutta farina della banda militare. Ma a parte il fatto che - insegnano i maghi del marketing - nell'era del digitale e degli mp3 è il singolo, e non l'album, a fare la differenza in classifica, l'interpretazione postuma del grande Winston è davvero notevole. Anche grazie al lavoro di Duncan Stubbs, il comandante della Banda, che ha scelto, per esempio, un brano come "Jerusalem", l'inno che Hubert Parry musicò su un poema di William Blake, per immortalare per esempio "Their Finest Hour".

Così Churchill è diventato il primo primo ministro a finire in hit parade: anche se non certamente il primo a essere, come dicono i dj, "campionato". Qualche altro esempio di grandi nomi in versione pop? Gli amanti del trash italiano ricorderanno l'hainoi irriverentissimo "Wojtyla disco dance" dell'improbabile Freddy The Flying Dutchman & the Sistina Band, anno del Signore 1979. E sempre in casa nostra, e in anni più vicini, sulla musica di "Così parlò Zaratustra", non a caso mixata con quella di "Pinocchio", Daniele Sepe immortalò il discorso del 1994 con cui Silvio Berlusconi difese in Parlamento il suo conflitto d'interessi ("Also Sprach Berluskastra").

Del resto lo stesso Barack Obama, che oggi s'è permesso di cestinare Churchill, era stato campionato dal rapper Will I Am, che aveva trasformato in hit il suo "Yes We Can". Ma allora Barack era ancora un semplice senatore: da quando è in carica, si sa, sono gli altri che gliele cantano.

Uno Stato debole con i forti e forte con i deboli


Il solerte steward n. 135 vuole - anzi ordina di - togliere e consegnare la maglia che mio figlio più grande porta al collo coi colori della sua squadra “per disposizioni”… Mio figlio si vede estirpare la maglia desiderata e tanto amata trattenendo a stento il pianto, io ho l’istinto di dirgli “se la tenga, povero deficiente” poi però mi giro e entrano in 3 con sciarpe di colori cittadini, due maglie di analogo patriottismo, una bandiera col grifo e allora non ci vedo più.

Sono un professionista ligio alle regole e osservante delle leggi ma non ce la faccio più. Chiedo il suo nome per denunciarlo in Procura il giorno dopo per sottrazione e furto ai danni di minore, nel frattempo urlo al vento il mio sdegno (intanto a mio figlio piccolo tolgono il cartoncino col succo di frutta e mi sento come al fronte… dare tutto anche fosse l’ultima volta….) nei confronti di questo stato debole coi forti e forte coi deboli che si accanisce con le persone per bene.

Ho la tessera del tifoso e vorrei sapere se quelle BESTIE nel settore 5 sono accreditati al mio pari con verifica della fedina penale. Scateno un putiferio che attira altre persone per bene che intercedono invocando la riesumazione del buon senso, e alla fine recupero la maglia già con la gola riarsa. I miei bambini sono sotto schock. Poi entro e le BESTIE hanno di tutto, bandiere che bruciano, cesoie, missili terra aria, fumogeni, bombe carta.

Non porterò MAI PIU’ i miei figli a vedere la nazionale perché tutto ciò che rappresenta non merita più, e da un sacco di tempo, il rispetto della gente per bene come noi,e che se la vadano a vedere solo quelli che mettono a ferro e fuoco una città e per questo vengono poi scortati, come i cardinali sulla gestatoria, bellamente dentro allo stadio a delinquere come meglio credono. Loro entrano con la maglia che vogliono. Cordialmente nauseato dal paese in cui vivo

Alberto Zucchi

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