guerra all'italico declino

FEDERALISMO; necessità italica di DITTATURA CORRETTIVA a tempo determinato per eliminazione corruzione, storture e mafie; GIUSTIZIA punitiva e certezza della pena; LIBERISMO nel mercato; RICERCA/SVILUPPO INNOVAZIONE contro la inutile stabilità che è solo immobilismo; MERCATO DEL LAVORO LIBERO e basato su Meritocrazia e Produttività; Difesa dei Valori di LIBERTA', ANTIDOGMATISMO, LAICITA' ;ISRAELE nella UE come primo baluardo di LIBERTA'dalle invasioni. CULTURA ED ARTE come stimolo di creatività e idee; ITALIAN FACTOR per fare dell'ITALIA un BRAND favolosamente vincente. RISPETTO DELLE REGOLE E SENSO CIVICO DA INSEGNARE ED IMPORRE

venerdì 12 novembre 2010

Ci vorrebbe IL PVV

Geert Wilders e la confusione dei media

A seguito dei recenti successi elettorali, da qualche tempo anche in Italia i mass media cominciano a parlare del partito Olandese PVV, fondato da Geert Wilders.
L'acronimo olandese PVV sta per "Partito delle Libertà", un nome che ricorda il Popolo delle Libertà di Berlusconi.
Proprio come il PdL, il PVV è un partito di Destra, molto critico nei confronti del relativismo culturale e dell'egualitarismo della Sinistra.
Inoltre, il PVV è il terzo partito in Olanda, un po' come la nostra Lega Nord e, proprio come la Lega, ha posizioni dure nei confronti dell'immigrazione, in particolare quella proveniente dai Paesi islamici.
Infine, proprio come il Centrodestra italiano, non gradisce di essere accostato ai partiti che si ispirano alla destra sociale, quella di matrice fascista.
Un'analisi superficiale, quindi, consegna il PVV alla categoria "partiti xenofobi e populisti della nuova destra demagogica" a cui appartengono molte delle recenti formazioni politiche europee.

Eppure, a guardare meglio, il partito di Geert Wilders è invece una novità nello scenario politico europeo, ed ha davvero molto poco a che spartire con il Centrodestra italiano.

Geert Wilders, che si è rapidamente guadagnato soprannomi come "Mozart" e "Capitan Perossido" per via della zazzera ossigenata -- francamente ridicola -- è un ateo olandese, laico, libertario e, al tempo stesso, diffidente nei confronti di tutte le confessioni religiose e dei loro dogmi.

Da buon olandese, Wilders è orgoglioso della tolleranza e dell'apertura mentale che la società dei Paesi Bassi è in grado di esprimere, ritenendola un segno di civiltà.
L'Olanda che Wilders sogna è un paese ancora multietnico e multiculturale, in cui posasano trovare posto rispetto reciproco e diritti individuali.
Wilders, inoltre, si definisce un grande amico degli Ebrei e di Israele (ricambiato) ed è uno strenuo difensore dei diritti degli omosessuali e delle donne, la cui tutela e parità ritiene essere un elemento cardine di una società moderna ed un tratto distintivo della cultura Occidentale.

Siamo lontani anni luce dall'isolazionismo provinciale leghista, come anche dalle battaglie omofobe, antisemite ed a tutela della "razza" dei neofascisti; ci ritroviamo, invece, curiosamente vicini alle idee dei Radicali Italiani.

Ma allora perché la stampa italiana, tutte le volte che parla di Geert Wilders, si sente in dovere di etichettarlo come "xenofobo", "razzista" e leader di una formazione politica di "estrema destra"?

La ragione è semplice: il PVV è fortemente determinato a limitare il più possibile l'immigrazione dai Paesi islamici in Olanda ed è contrario al velo integrale, ed ad altre manifestazioni del fondamentalismo, come la segregazione e riduzione in stato di semi-schiavitù della donna.
Xenofobia?
Facciamo quelli con il cervello acceso. Prima di affibbiare etichette, sentiamo cosa dice il diretto interessato: il PVV sostiene che l'integralismo islamico sia incompatibile con la vita democratica e che rappresenti una forma di totalitarismo fascista che utilizza le libertà civili dell'Occidente allo scopo di distruggerlo.

In sostanza, Wilders ritiene che non sia possibile mantenere in piedi un sistema di regole democratiche che tutelino i diritti individuali, la libertà e l'uguaglianza di tutti i cittadini, specie delle categorie più deboli come gli omosessuali, i minori e le donne se -- al tempo stesso -- non ci si difende dalle forze contrarie, interne ed esterne, che puntano a minare ed a sovvertire quegli stessi diritti.

Più volte Wilders ha ribadito, ed altrettante volte le sue dichiarazioni sono state ignorate dagli organi di stampa, che la sua battaglia politica non riguarda tutti i musulmani, ma soltanto quelli che, per motivi religiosi, si rifiutano di integrarsi nel sistema di libertà e di diritti della persona delle società occidentali.

Quella di etichettare Wilders come xenofobo razzista di estrema destra appare più come la conseguenza dell'applicazione errata di vecchie categorie novecentesche da parte dei media ad un fenomeno politico nuovo del XXI Secolo, che coniuga laicismo, libertà individuali e diritti civili, ma nega l'egualitarismo culturale.

L'idea di Wilders, che solo in Olanda poteva trovare una realizzazione così compiuta, appare come un moto d'orgoglio del mondo occidentale, una voce che afferma con forza che la società democratica, libera e laica, con tutti i suoi difetti, è comunque quanto di meglio l'umanità abbia prodotto sinora, perché è la sola che assicura il rispetto dei diritti individuali e delle vocazioni personali di ognuno; una voce che ricorda che l'equilibrio democratico è, per propria natura, intrinsecamente instabile e che quindi necessita di essere continuamente riaffermato e tutelato da nemici interni ed esterni.

Ora, non so voi, ma quando leggo la notizia che in Olanda gruppi di giovani fanatici islamisti picchiano gli omosessuali per strada e che la Sinistra li difende(!), io mi domando se il mondo oggi sappia ancora cosa siano la Destra e la Sinistra; se queste due categorie abbiano ancora un significato, dopo la fine della guerra fredda, o se bisognerebbe quantomeno ridefinirle.

Io credo che uomini come Geert Wilders stiano provando a gettare le basi di un sistema di valori diverso, libero dagli steccati del passato.

Sono pienamente consapevole, ed immagino lo sia anche Wilders, che il passaggio è stretto e che il confine tra la tutela della laicità liberale come faro del mondo e la xenofobia becera della Lega Nord è molto labile.

Ma sono altrettanto convinto che, in questa fase storica di crisi di ideali, il tentativo sia doveroso e che il beneficio potrebbe essere grande per tutto l'Occidente e non solo.

martedì 9 novembre 2010

Crolla Il patrimonio artistico una nostra grande RISORSA

Per una singolare coincidenza, mentre era da poco crollata la Casa dei Gladiatori di Pompei, ignaro dell’evento, stavo visitando gli scavi di Ostia Antica, non impressionanti come quelli di Pompei ma di grande suggestione e importanza, poiché offrono l’immagine di una città commerciale dell’antica Roma. Mi chiedevo come fosse possibile una tariffa d'ingresso così irrisoria: 6,50 euro, ridotti a 3,25 o a zero per numerose categorie. In cinque abbiamo pagato 6,50 euro. Somme (...)
(...) simili non coprono il costo necessario a riscuoterle. Non sarebbe possibile pretendere molto di più e abolire certe assurde facilitazioni? Ma certo che sarebbe possibile. Figuriamoci se un turista, una volta venuto in Italia, si tirerebbe indietro di fronte a una spesa un po’ più consistente!
E poi, perché mai nei musei esteri sono presenti negozi che offrono una profusione di oggetti e gadget fantasiosi e anche di qualità, mentre i nostri non vanno oltre una misera offerta di cartoline, matite o T-shirt? La fantasia non arriva neppure a mettere in vendita puzzle dei mosaici, costruzioni dei monumenti per bambini o riproduzioni dei dipinti. All’estero, sfruttano come limoni i quattro zeppi che possiedono, mentre noi, che rigurgitiamo di beni culturali, li esibiamo sciattamente, con la testa girata dall’altra parte, come se la conservazione di questo immenso patrimonio fosse un'incombenza fastidiosa, una condanna; e il suo sfruttamento fosse da lasciare in mano all’esercito dei ciceroni fasulli, dei camion di paninari e dei borseggiatori.
Sappiamo bene che anche una gestione oculata di tariffe e negozi servirebbe al più a coprire le spese del personale. Servono investimenti rilevanti, rilevantissimi. Ma come si fa a non capire che questa è la risorsa che rende l’Italia unica al mondo? Pare che sia falsa la notizia che qualcuno nel governo abbia detto che la cultura non si mangia. Meno male, perché pur lasciando da parte la volgarità di una simile espressione, sarebbe stupefacente che non si capisca quale immenso valore economico rappresenta il patrimonio culturale italiano.
Sia ben chiaro. Se vogliamo parlare il linguaggio della verità va detto che su questo tema può scagliare la prima pietra soltanto chi è senza peccati, cioè quasi nessuno. È indubbio che il governo e la maggioranza abbiano le loro colpe. Se il rigore finanziario si esercitasse in modo uniforme su tutti i fronti non vi sarebbe niente da dire. Ma non è così. Gli esempi sono tanti. Basti dire che non si può da un lato combattere il fenomeno dei falsi invalidi e poi approvare leggi che rischiano di estendere in modo sterminato la platea dei falsi disabili.
Certamente le finanze del nostro Paese sono in bilico e il rigore è indispensabile in presenza di una crisi strutturale profonda che purtroppo non è ancora alle spalle. Ma questo è un Paese in cui, pur mettendo da parte l’evasione fiscale, si sperperano risorse in modo indecente. Nel nome della "cultura" scorrono torrenti di quattrini da ogni lato. Non c’è ente locale che non abbia la sua sagra letteraria, scientifica, filosofica, che non promuova un premio letterario, che non organizzi convegni sugli argomenti più inattesi. Tutto questo mobilita un’enorme quantità di risorse, per produrre spesso poco o niente di valido. Provate a constatare lo stupore con cui uno straniero accoglie la descrizione della mole incredibile di iniziative "culturali" che pullulano in ogni angolo del Bel Paese. Basterebbero le spese necessarie a sostenere un certo numero di queste iniziative per dare ossigeno alle nostre disastrate Biblioteche nazionali. Un minimo senso di responsabilità dovrebbe indurre gli enti locali a fare a gara nel dirottare i fondi impiegati nelle iniziative "culturali" effimere verso il compito di salvare un inestimabile patrimonio archeologico, artistico, architettonico, museale, culturale; invitando gli sponsor privati che intervengono in quelle iniziative a fare altrettanto. E, se tale senso di responsabilità non vi fosse, bisognerebbe esplorare tutte le vie per costringere a comportamenti virtuosi, come si richiede in circostanze di emergenza.
Purtroppo, in barba alla verità che "nessuno può scagliare la prima pietra", stiamo assistendo alla solita sagra dell’ipocrisia nazionale. Difatti, se il governo non brilla per sensibilità nei confronti della cultura, chi lo attacca dall’opposizione fa la parte del bue che dà del cornuto all’asino. Chi, se non quasi tutte le amministrazioni locali di sinistra (ispirandosi all’ideologia della cultura dell’effimero), ha finanziato per anni lautamente feste su feste, festival su festival, le iniziative più fasulle, spesso appaltate a dilettanti il cui unico merito era quello di essere "amici", mentre i marciapiedi dei centri storici andavano in pezzi e i monumenti si ricoprivano di immondizia e di graffiti? L’ex sindaco di Roma Veltroni, invece di gridare allo scandalo, dovrebbe fare autocritica per aver favorito la cultura dell’effimero, mettendosi in gara con Venezia per duplicare il festival del cinema, invece di impegnarsi esclusivamente sul fronte del patrimonio archeologico, artistico e culturale della capitale.
Il crollo della Casa dei Gladiatori di Pompei è frutto di un disastro che ha premesse lontane, è l’esito di un disinteresse scandaloso di cui tutti, nessuno escluso, dovrebbero fare ammenda e per il quale dovrebbero cospargersi il capo di cenere. Invece, si preferisce imbastire la sagra dell’ipocrisia e della strumentalizzazione politica e non mettere il dito sulla vera piaga: la necessità di cessare una volta per tutte di sparlarsi addosso dalla mattina alla sera di "cultura" in termini metodologici, ludici o spettacolari, mentre i fondamenti materiali della cultura - monumenti, musei, scavi, biblioteche, archivi - si sgretolano.
Si tratta nientemeno che dei fondamenti della nostra civiltà, quelli che danno senso alla nostra identità storica. Ma sono sempre meno coloro che nutrono interesse per questi fondamenti. Siamo sempre più nelle mani di persone la cui sensibilità culturale è prossima allo zero. In fondo, è la stessa situazione che si verifica con l’istruzione. La prima preoccupazione non dovrebbe essere quella di plasmare la formazione dei giovani su quei valori e su quei contenuti culturali che sono il fondamento della nostra civiltà? Invece siamo sotto la ferula di personaggi che predicano che non deve contare nulla "cosa" si pensa, bensì soltanto "come" si pensa. In tal modo, il "cosa", ovvero la cultura propriamente detta, va a pezzi come la Casa dei Gladiatori.
Perciò, con tutto il rispetto per i manager e il loro ausilio indispensabile, non bastano i tecnicismi. Il patrimonio culturale non si salva con il modello Asl o consegnando tutto ai privati. Occorre una presa di coscienza nazionale e una grande spinta morale per salvare ciò che rappresenta la nostra principale e unica ricchezza. Purtroppo, c’è seriamente da temere che nutrire la speranza di una simile presa di coscienza sia una grande ingenuità.
(Tratto da Il Giornale)

lunedì 8 novembre 2010

Tra giovani mignotte e scavi, tra giudici d'assalto e indignazione gay..

All'armi son sfascisti. I marò del Partito democratico, le truppe terrestri di Di Pietro, i siluratori subacquei di Fini, la flottiglia aerea dei pm, più i carri armati dei poteri forti, sono partiti per colpire in terra, in cielo e in mare Berlusconi, il suo governo e la maggioranza dell'Italia che lo sostiene. Non hanno un progetto comune e nemmeno progetti separati, ma un solo desiderio: sfasciare Berlusconi e il suo governo. Per la causa, ogni scusa è buona: giovani mignotte, scavi di Pompei, giudici d'assalto e gay indignati. Diventato ormai l'umbria di se stesso, un Fini inacidito compie lo storico strappo di Perugia, terra del suo precursore Gaucci. Gli fa eco un Bersani travestito da magazziniere delle Coop, con le maniche rimboccate come esige il copione della fiction di partito, che mobilita la piazza contro Berlusconi. La mattanza è fissata prima di Natale, l'11 dicembre. Ma dal suo partito, gli sfascisti più coerenti vogliono approfittare dello sfascio per rottamare pure lui, il Lenin del tortello.
Insomma è tutto un fervore di buoni propositi da garage di Avetrana: chi vuole stringere alla gola di Berlusca una corda e chi una cinta, e chi vorrebbe approfittarne per seviziarlo. Non è bello vivere questo autunno italiano, scansare pugnali e veleni, respirare aria fetida e alluvioni, crolli e immondizie. Ormai si sono scavati fossati incolmabili, non ci sono più spazi di dialogo e di trattativa, non ci sono più punti in comune tra le forze in campo, eccetto uno. Sì, c'è un punto, un solo punto in comune tra i governativi e gli sfascisti, tra Berlusconi, Fini, Bersani, i poteri forti e la bella stampa: è l'invocazione di un santino miracoloso, un ragazzo di Bologna che fu adottato da una famiglia di palazzinari romani. Parlo di San Pierferdinando decollato, al secolo Casini, Unico Democristiano Corteggiato (in sigla Udc).
Tutti, da sinistra a destra, invocano il ragazzo della Provvidenza. Perfino Berlusconi e Fini pur vivendo ormai agli antipodi e dicendo ormai sempre e solo cose opposte, arrivano sorprendentemente alla stessa conclusione: per uscire dalla crisi ci vuole Casini. Berlusconi dice: dai, Casini vieni con noi e subito dopo Fini dice: per svoltare nel Paese ci vuole Casini al governo. Vi dico nel dettaglio la sequenza del ragionamento di Fini: Berlusconi vai a casa, poi fai un altro governo, un Berlusconi bis. E quale sarebbe la differenza tra il primo e il secondo governo? L'innesto di Casini, appunto.
Ma che avrà di così miracoloso questo Pierferdinando? Quali doti nascoste, quali virtù sfuggite agli italiani lo rendono oggi il Messia? Nessuna in particolare. Casini ha solo una fortuna: ha aperto un negozietto in pieno centro, anzi per la precisione occupa un sottano nel Palazzo che fu della Dc. La collocazione strategica di quel piccolo locale lo rende assai appetibile e prezioso per tutti. È vero che a volte il ragazzo di Bologna è solo un alibi, un modo per non dire che vogliono apertamente lo sfascio o le urne. Ma è vero che quel piccolo locale basterebbe a Berlusconi per governare; e dall'altra parte darebbe qualche margine d'azione a Fini, a Bersani, a Montezemolo, a Rutelli. Senza citarlo, anche il guru del Censis De Rita lo invocava ieri dalle colonne del Corriere della Sera a guidare una coalizione di colombe; ma anche il falco Maurizio Belpietro lo suggerisce a Berlusconi come suo successore.
Eccolo, il ragazzo della Provvidenza, devoto alla Madonna di San Luca, che fece le scuole elementari da Forlani, poi le medie da Berlusca che lo nominò capoclasse alla Camera, ma andò nel frattempo a lezioni private dai Caltagirone. Ora che si è messo in proprio, viene tirato da tutte le parti, da sinistra, da destra, dal centro, dalla periferia, dalla Chiesa e dalla Confindustria. Si scelse come aiutante per i lavori ingrati il faccendiere politico Cesa e come cappellano don Rocco Buttiglione. Senza aver fatto nulla di significativo è diventato il centro dell'universo politico italiano, il sole del sistema planetario dei partiti. Per nessuno Casini è il Nemico o il Male, ma per tutti o per tanti è il Ripiego.
Come Fini, anche lui è un politico di professione, cominciò nella Dc dalla prima comunione e da allora non smise più. Però è più accorto e meno astioso di Fini, fa i matrimoni giusti e non ha mai rinnegato le sue origini. E non ha mai tradito Berlusconi ma lo ha lasciato quando erano all'opposizione: sì, lo ha tormentato ai tempi dell'altro governo, ma non si è mai sfilato dalla maggioranza quando diventò presidente della Camera, non mise in ginocchio il governo. E poi, se permettete, fa più simpatia di Fini, non ha cognati invadenti e non gioca sui valori politici e immobiliari. Ha quell'aria da chierichetto discolo, che fa qualche marachella, scansa qualche scapaccione dal parroco ma nessuno lo vorrebbe cacciare dalla Chiesa. Così l'Italia è finita ai piedi di Casini. Madonna di San Luca, come ci siamo ridotti.

sabato 6 novembre 2010

Precari e competitività Stampa E-mail
Scritto da Davide Giacalone   
sabato 06 novembre 2010
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Quello di Mario Draghi (si devono stabilizzare i precari) è un programma politico. Quella di Sergio Marchionne (rafforzeremo la presenza Fiat in Italia) è una decisione politica. Lo scrivo senza alcun intento polemico. Anzi, se la politica viene meno ai propri doveri, di governare il presente avendo in mente un’idea di futuro, è bene che altri protagonisti si facciano avanti. Ma chi fa politica deve accettare le regole del contraddittorio politico, evitando di contrarre il difetto dei politicanti: aggirare i problemi con mezze verità.
Sottoscrivo il ragionamento di Draghi: l’Italia perde competitività da molti anni e continua farlo, rinunciare alla ricchezza dell’esperienza maturata nel lavoro aggrava i problemi. Giusto, ma proporre la graduale stabilizzazione dei precari induce più confusione che ragionevole speranza. E’ vero che negli anni pre-crisi l’occupazione con contratti a tempo parziale e/o determinato è cresciuta, in Italia, più che in altri Paesi europei, ma ciò si deve all’arretratezza della legislazione precedente, che soffocava questo genere di rapporti, e alla lungimiranza della legge Biagi. Ed è vero che espellere quei lavoratori, sotto la pressione della crisi, significa bruciare esperienza e creare loro seri problemi, ma proporre la stabilizzazione senza aggiungere che deve accompagnarsi con una revisione complessiva del mercato del lavoro equivale a promettere pane e felicità per tutti. Un sotterfugio da comizianti, più che una ponderata riflessione da economisti. Non si può chiedere più elasticità e più sicurezza per tutti. Siccome non è saggio difendere un sistema che produce perdite di competitività è meglio proporre più meritocrazia e più mobilità. Avendo cura, per onestà, d’aggiungere: in entrata e in uscita.
Tra il 1998 e il 2008, nel settore privato, il costo del lavoro per unità di prodotto è cresciuto del 24% in Italia e del 15% in Francia, mentre è diminuito in Germania. Sono dati della Banca d’Italia. Se stabilizzassimo i precari, senza adottare altre misure compensative, non faremmo che aumentare il divario. E’ verissimo (quante volte lo abbiamo scritto!) che la mobilità sociale è scandalosamente bassa e che l’istruzione non produce promozione dei migliori. Ha fatto bene Draghi a ripeterlo. Ma non si rimedia dando più soldi e più carriera ai laureati, altrimenti assesteremmo ulteriori mazzate alla produttività, si agisce cancellando il valore legale del titolo di studio e sbaraccando un sistema dell’istruzione che garantisce successo a chi ci lavora, non a chi ci studia. La verità, insomma, va detta tutta. Altrimenti si prendono solo applausi, tanto scroscianti quanto inutili e conservatori.
A noi non può che fare piacere sapere che la Fiat intende restare e crescere in Italia. Evviva. Ma è stato Marchionne ad andare in televisione e raccontare che nel nostro Paese non fa un solo centesimo di utile. Allora, escluso che voglia candidarsi a protagonista di una parabola evangelica, escluso anche che sappia come moltiplicare i pani e i pesci, è chiaro che si tengono aperti gli stabilimenti produttivi e si chiudono quelli che appesantiscono i conti, e se, invece, si fa il contrario, allora si ha il dovere di raccontarla tutta. Perché Marchionne sostiene la prima tesi ospite della Rai e la seconda ospite del governo? Ecco la risposta: perché se vuoi chiudere uno stabilimento in Spagna o in Svezia ne paghi il costo sociale, se lo vuoi chiudere in Italia si apre un dibattito politico, non scuci un tallero e puoi anche mettere becco sulla scelta di chi prende il tuo posto.
A me sta benissimo che le imprese abbiano come finalità il profitto, mentre trovo sospetti i discorsi filantropici (è socialmente utile la ricerca del profitto, è politicamente costosa la bontà in conto a terzi). Se Marchionne s’attiene alle regole del mercato ha la nostra ammirazione, se, invece, deroga da quelle e trae vantaggi dal nostro sistema detestabilmente consociativo e inciucistico, allora se ne assuma le responsabilità ed eviti toni stonatamene patriottici.
I discorsi di Draghi e Marchionne non hanno nulla in comune, se non la possibilità d’essere pronunciati senza che alcun protagonista politico sia in grado d’alzarsi e contestare agli oratori le loro mancanze e incoerenze. Non è colpa loro se la nostra è divenuta una politica minuscola, le cause sono più profonde e meno contingenti. Ma credo sia utile avvertire che nelle mezze verità c’è poco di maiuscolo. E quel che c’è non è ammirevole.
Precari e competitività Stampa E-mail
Scritto da Davide Giacalone   
sabato 06 novembre 2010
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Quello di Mario Draghi (si devono stabilizzare i precari) è un programma politico. Quella di Sergio Marchionne (rafforzeremo la presenza Fiat in Italia) è una decisione politica. Lo scrivo senza alcun intento polemico. Anzi, se la politica viene meno ai propri doveri, di governare il presente avendo in mente un’idea di futuro, è bene che altri protagonisti si facciano avanti. Ma chi fa politica deve accettare le regole del contraddittorio politico, evitando di contrarre il difetto dei politicanti: aggirare i problemi con mezze verità.
Sottoscrivo il ragionamento di Draghi: l’Italia perde competitività da molti anni e continua farlo, rinunciare alla ricchezza dell’esperienza maturata nel lavoro aggrava i problemi. Giusto, ma proporre la graduale stabilizzazione dei precari induce più confusione che ragionevole speranza. E’ vero che negli anni pre-crisi l’occupazione con contratti a tempo parziale e/o determinato è cresciuta, in Italia, più che in altri Paesi europei, ma ciò si deve all’arretratezza della legislazione precedente, che soffocava questo genere di rapporti, e alla lungimiranza della legge Biagi. Ed è vero che espellere quei lavoratori, sotto la pressione della crisi, significa bruciare esperienza e creare loro seri problemi, ma proporre la stabilizzazione senza aggiungere che deve accompagnarsi con una revisione complessiva del mercato del lavoro equivale a promettere pane e felicità per tutti. Un sotterfugio da comizianti, più che una ponderata riflessione da economisti. Non si può chiedere più elasticità e più sicurezza per tutti. Siccome non è saggio difendere un sistema che produce perdite di competitività è meglio proporre più meritocrazia e più mobilità. Avendo cura, per onestà, d’aggiungere: in entrata e in uscita.
Tra il 1998 e il 2008, nel settore privato, il costo del lavoro per unità di prodotto è cresciuto del 24% in Italia e del 15% in Francia, mentre è diminuito in Germania. Sono dati della Banca d’Italia. Se stabilizzassimo i precari, senza adottare altre misure compensative, non faremmo che aumentare il divario. E’ verissimo (quante volte lo abbiamo scritto!) che la mobilità sociale è scandalosamente bassa e che l’istruzione non produce promozione dei migliori. Ha fatto bene Draghi a ripeterlo. Ma non si rimedia dando più soldi e più carriera ai laureati, altrimenti assesteremmo ulteriori mazzate alla produttività, si agisce cancellando il valore legale del titolo di studio e sbaraccando un sistema dell’istruzione che garantisce successo a chi ci lavora, non a chi ci studia. La verità, insomma, va detta tutta. Altrimenti si prendono solo applausi, tanto scroscianti quanto inutili e conservatori.
A noi non può che fare piacere sapere che la Fiat intende restare e crescere in Italia. Evviva. Ma è stato Marchionne ad andare in televisione e raccontare che nel nostro Paese non fa un solo centesimo di utile. Allora, escluso che voglia candidarsi a protagonista di una parabola evangelica, escluso anche che sappia come moltiplicare i pani e i pesci, è chiaro che si tengono aperti gli stabilimenti produttivi e si chiudono quelli che appesantiscono i conti, e se, invece, si fa il contrario, allora si ha il dovere di raccontarla tutta. Perché Marchionne sostiene la prima tesi ospite della Rai e la seconda ospite del governo? Ecco la risposta: perché se vuoi chiudere uno stabilimento in Spagna o in Svezia ne paghi il costo sociale, se lo vuoi chiudere in Italia si apre un dibattito politico, non scuci un tallero e puoi anche mettere becco sulla scelta di chi prende il tuo posto.
A me sta benissimo che le imprese abbiano come finalità il profitto, mentre trovo sospetti i discorsi filantropici (è socialmente utile la ricerca del profitto, è politicamente costosa la bontà in conto a terzi). Se Marchionne s’attiene alle regole del mercato ha la nostra ammirazione, se, invece, deroga da quelle e trae vantaggi dal nostro sistema detestabilmente consociativo e inciucistico, allora se ne assuma le responsabilità ed eviti toni stonatamene patriottici.
I discorsi di Draghi e Marchionne non hanno nulla in comune, se non la possibilità d’essere pronunciati senza che alcun protagonista politico sia in grado d’alzarsi e contestare agli oratori le loro mancanze e incoerenze. Non è colpa loro se la nostra è divenuta una politica minuscola, le cause sono più profonde e meno contingenti. Ma credo sia utile avvertire che nelle mezze verità c’è poco di maiuscolo. E quel che c’è non è ammirevole.

Il sindaco Carini Ci COLMA di MIN.....!

"....Colmata. Carini dice che entro l’anno si risolve tutto.Paranoia totale.
Che notizie ci dà lei?
Io sto cercando di fare inserire la colmata nel progetto di rifacimento del porto. Diventa un’unica grande area, e sarà la Regione ad assumersi i costi per la sistemazione dell’area.
All’insaputa del Comune?
Non si capisce il ruolo del Comune. Non ha alcun compito in questa vicenda..".

lunedì 1 novembre 2010

un sinodo di follie

 FAMIGLIA CRISTIANA del 28/10/2010, a pag. 12 l'articolo di Alberto Bobbio dal titolo “Gerusalemme pace e non muri” analizza i punti principali sui quali si è concentrato il Sinodo per il Medio Oriente.
E Israele ancora una volta è nel mirino: non basta che venga sistematicamente condannato dalla stampa estera, che istituzioni accademiche, economiche o artistiche israeliane vengano boicottate per i motivi più svariati, che l’ONU abbia dedicato all’unica democrazia del Medio Oriente - garante di diritti civili e umani - circa l’80% dei suoi atti,  anche il Sinodo, anziché un’opportunità di approfondimento e riflessione, si trasforma nell’occasione per condannare lo Stato ebraico e “
chiedere esplicitamente che le Nazioni Unite facciano rispettare a Israele le risoluzioni del Consiglio di sicurezza…..il ritorno dei profughi e la promozione di un linguaggio di pace”. Parola quest’ultima ben conosciuta e rispettata dallo Stato ebraico.
Nell’articolo invece non ci sono condanne esplicite né per le formazioni terroristiche palestinesi, né per il regime di terrore instaurato da Hamas a Gaza che utilizza i civili come scudi umani e che ha condotto la popolazione palestinese alla miseria.
Anzi si evidenzia che “
se il popolo palestinese avrà una patria, anche Israele potrà godere della pace”, lasciando intendere che se i palestinesi non hanno una patria la responsabilità è naturalmente di Israele.
Peraltro l’assicurazione dei padri sinodali di “
aver anche ragionato sulla sofferenza e l’insicurezza degli israeliani”, è smentita dalle continue condanne del “muro” – presente anche nel titolo - che Israele ha costruito (in realtà si tratta di una barriera difensiva, per l’80% del suo tracciato fatta di filo spinato) nel tentativo di proteggersi da un terrorismo spietato e che ha salvato centinaia di vite innocenti.
Nessuna condanna invece è rivolta dai solerti padri sinodali a quei paesi (ad esempio l’Iran) che violano i diritti umani, che lapidano le donne, che torturano i dissidenti a riprova che “
il doppio standard è lo standard regolarmente utilizzato per giudicare Israele”.
Il raggiungimento di una pace duratura non può prescindere dalla cessazione dell’incitamento all’odio nei confronti di Israele e dal riconoscimento di questo paese come Stato degli ebrei da parte di tutti i paesi che gravitano nell’area.
Anche questa è una verità che è necessario affermare, con coraggio
Un coraggio che è mancato al Sinodo dei vescovi.

giovedì 28 ottobre 2010

Londra:Keynes?!..E chi è?!

Un vecchio adagio keynesiano dice che tagliare la spesa pubblica in un momento di ristagno del ciclo è un grave errore, perché deprime la domanda e rallenta ulteriormente le attività economiche. E’ la via seguita da mister Obama, e tutto fa pensare gli costerà cara alle elezioni del Midterm. E’ la via che esagitati alla Paul Krugman vorrebbero seguire ancor più di quanto non sia avvenuto in America. Ed è la via che in Italia è sempre andata per la maggiore, con la differenza che noi l’abbiamo applicata sia negli anni di recessione sia negli anni di crescita.
Cioè praticamente sempre, visto che nell’intera serie storica dell’Italia repubblicana in tre soli anni è avvenuta una diminuzione della spesa pubblica in termini reali. Senonché, la buona notizia per i liberisti-mercatisti impenitenti come chi qui scrive, è che finalmente abbiamo le prove che il vecchio adagio keynesiano non vale più. Non ho detto che non vale mai, perché sarebbe una sciocchezza ideologica e grazie al cielo qui abbiamo tanti difetti ma dell’ideologia cerchiamo di fare a meno. Diciamo che l’evidenza di una riclassificazione degli episodi di crisi degli ultimi decenni nei paesi avanzati – curata per esempio da economisti come Alberto Alesina – nonché andamenti in corso oggi in alcuni Paesi, provano finalmente in maniera chiara che è una solenne sciocchezza, non tagliare il deficit pubblico quando le cose vanno male. Ad alcune condizioni.
Nei Paesi ad alto deficit e debito pubblico, e in quelli ad alta intermediazione pubblica del reddito nazionale cioè ad alta spesa pubblica e pressione fiscale, quando l’economia va male un taglio energico alla spesa pubblica non produce effetti depressivi, ma tonificanti. A patto che sussistano almeno tre condizioni aggiuntive. La prima è che l’economia privata abbia una buona componente orientata all’export di beni e servizi. La seconda è che i tagli siano – cioè appaiano agli operatori economici – come duraturi. La terza è che i contribuenti non sentano puzza di ipocrisia da parte della politica, non pensino cioè che quel che all’inizio si presenta come taglio diventerà domani aumento delle tasse.
A onor del vero, per essere corretti sino in fondo bisogna dire che questa conclusione non smentisce solo Keynes, ma anche un fondamento della teoria detta delle aspettative razionali, e cioè il principio di equivalenza ricardiana (anzi equivalenza Ricardo-Barro, per gli addetti) per il quale la scelta della politica di finanziare la spesa attraverso il debito o le tasse non avrebbe effetti sul livello della domanda.
Qual è l’ultima conferma evidente che impugnare la scure contro il leviatano pubblico è un bene? Viene dal Regno Unito. Dopo un’ottima crescita dell’1,2% del Pil nel secondo trimestre 2010, i più si aspettavano una frenata drastica nel terzo, in considerazione dei tagli energici alla spesa pubblica che tutti immaginavano sarebbero stati varati dal governo guidato da David Cameron. Al contrario, nel terzo trimestre la crescita si è rivelata più che doppia delle attese, dello 0,8%. Il ritmo superiore al 2% annuo in due trimestri consecutivi e del 2,8% sull’anno precedente è il migliore del Regno Unito da 10 anni a questa parte. Eppure, il governo Cameron ha varato la più dura manovra taglia deficit dell’intero dopoguerra britannico. Con il deficit pubblico che scenderà dall’11% di Pil quest’anno al 2%, entro soli 4 anni: ben 94 miliardi di euro di tagli alla spesa, 32 miliardi di nuove entrate. In media, ogni ministero subisce un taglio del 19%, ma la logica non è quella lineare adottata in Italia. Il governo Cameron sceglie le sue priorità. Dunque non è vero che le riduzioni in termini reali di spesa pubblica non si possono fare. Non è vero che, facendole, non si debba scegliere che cosa tagliare tantissimo e che cosa tagliare comunque, ma meno o anche per nulla.  L’età pensionabile viene innalzata di 2 anni da 64 a 66 a cominciare dal 2020, cioè 6 anni prima di quanto previsto, e 30 miliardi di pounds sono riservati a un piano straordinario per le infrastrutture , soprattutto ferroviarie. Ben 490 mila dipendenti pubblici usciranno dal perimetro degli occupati pagati dal contribuente britannico. Ci pensate, a qualcosa di simile in Italia? Non c’è solo la Germania, a indicare la via della crescita nel rigore attraverso l’alta produttività della manifattura e dell’export. Il segnale che viene da Londra è di grande speranza. Debiti pubblici galoppanti e banche centrali che li monetizzano sono un mix disastroso, che alla lunga malgrado le illusioni stataliste porta alla sconfitta politica, oltre che alla stagnazione economica.
Oscar GIANNINO

L’urticante Marchionne


Le parole di Sergio Marchionne, circa la miseranda condizione competitiva dell’Italia, possono essere sezionate, valutate, lette alla luce delle tante volte in cui i contribuenti hanno salvato la Fiat, annacquate, temute o occultate, ma hanno una urticante caratteristica: sono vere. Le reazioni della politica sono altezzose o pensose, con il balletto del partito preso già in tutù (Fini già volteggia e gli manca solo il pugno chiuso), ma hanno una cosa in comune: fanno finta di non capire che è in gioco la sorte degli stabilimenti Fiat in Italia. Mica solo Termini Imerese, già avviato alla chiusura, ma direttamente Mirafiori.
A Marchionne si può rispondere che i bilanci della Fiat andrebbero meglio non solo senza l’Italia, ma anche senza tutta quanta la produzione di autovetture in Europa, visto che i conti produttivi sorridono a parlare di trattori, camion e macchine brasiliane. Come si può rispondere che se egli ha trovato un’azienda mal messa, ma grande abbastanza da potere avere un ruolo nel mondo, lo deve al fatto che gli italiani si sono tassati, per decenni, in modo da reggerla in piedi. E non c’entrano i prestiti restituiti, perché quelli sono convissuti con una lunghissima storia di superbolli contro il diesel (quando la Fiat non ne produceva) e rottamazioni. Rispondere in questo modo serve a ripassare la storia, ma è del tutto inutile nel presente.
Per capire il problema mi servirò di un rimprovero mosso, a Marchionne, dai sindacati, secondo cui egli si sarebbe dimenticato di essere a capo di una “multinazionale italiana”. Peccato che le multinazionali sono soggetti che vivono nel mondo globale e parlano l’unica lingua accettata dai mercati: produttività e redditività. Ingiusto, capitalistico, spietato? Non direi, visto che l’alternativa sarebbe il capitalismo nostrano, fatto di sovvenzioni e agevolazioni, ovvero esattamente quello che si pretende di rimproverare a Marchionne. E il cielo ce ne protegga. Essendo questo il quadro, l’osservazione dell’uomo con il maglioncino è pertinente: cari italiani, siete fuori dal mondo. Una constatazione che sottoscrivo.
Salvo il fatto che, proprio partendo da quel presupposto, scrissi di quanto surreale fosse il referendum fatto fra i lavoratori di Pomigliano, dai quali si è preteso esprimessero un’opinione sulle conseguenze della globalizzazione. Come se Pomigliano fosse extraterritoriale, come se quegli accordi potessero rimanere confinanti dentro uno stabilimento. Era così evidente, l’insensatezza di una tale tesi, che poche settimane dopo gli imprenditori metalmeccanici hanno disdetto l’accordo firmato con i sindacati, giusto per non far fare a Marchionne la figura dell’unico in grado di ragionare e far di conto. Da quel referendum si dipartono molti errori, perché da una parte spacca definitivamente il sindacato, cancellando anche il moderatismo di Guglielmo Epifani e consegnando la Cgil alla Fiom, dall’altra cancella la sinistra, che va biascicando sciocchezze sul fatto che si trattava di un referendum aziendale, nel cui merito non si entra per rispetto dei lavoratori (ma va là!), così rinunciando al proprio ruolo politico di sintesi e proposizione.
Anche il governo resta con il cerino in mano, perché il fatto che Marchionne rilanci ad ogni passaggio successivo, qualche volta in modo ricercatamente provocatorio e sempre con un linguaggio ruvido, finisce col togliere forza all’asse costruito con gli altri due sindacati, e segnatamente la Cisl. Se non si hanno elementi per pesare sulle decisioni di Fiat ci si rassegna al fatto che saranno le politiche di Fiat a pesare sull’Italia, quindi sul suo governo. Guai, però, a dimenticare lo scenario complessivo, che spiega molte cose: Marchionne lavora su un orizzonte globale, il nostro dibattito politico si sviluppa come se ce ne potessimo stare fuori dal mondo. Il punto, pertanto, non è stabilire se si parteggia o si osteggiano le parole del manager, ma quali altre si vorrebbero usare per raccontare la storia di un’Italia che esce dall’incubo di una lunga e progressiva perdita di competitività (come documentano le serie storiche e come ha sottolineato lo stesso Silvio Berlusconi, in quel momento impegnato a parlare del costo dell’energia).
Non si tratta, allora, d’imbrigliare l’italo-canadese, né di mandarlo a quel paese (che si chiama mondo), ma di dire a noi stessi che il verbo dei cambiamenti strutturali non può essere coniugato al futuro, che si è già in ritardo se lo si coniuga al presente. Se continuiamo a raccontarci la favola dei diritti acquisiti e della precarietà da eliminare, siamo fregati. Se pensiamo ancora alle fabbriche come produttrici d’occupazione, e non di beni da vendere, le chiuderemo una a una. Se all’impresa chiediamo di risolvere problemi sociali passa in cavalleria il gran ritardo di ricerca, sviluppo e innovazione. Insomma, se non ci decidiamo a tornare sulla terra del presente faremo la fine dei palloncini che prima volano, poi s’ammosciano e infine cadono. Sicché, al netto di tutte le risposte puntute che a Marchionne possono essere date, il fatto che ci sia chi certe cose le dice a brutto muso (e nel salottino bene del politicamente corretto) non è un male.

sabato 23 ottobre 2010

A calci in culo ti mando fuori dall' Italia


Cacciamo dall’Italia chi brucia il tricolore
di Marcello Veneziani

Ho davanti agli occhi l'immagine di quel napoletano di Terzigno che usa il tricolore per insultare i poliziotti e poi lo brucia davanti alle telecamere della Rai. Mi vergogno per lui, da meridionale e da italiano; anzi mi vergogno di lui, e di coloro che fanno banda con lui. Preferiscono bruciare l'Italia più che i rifiuti? Meritano di vivere nei rifiuti più che in Italia. Hanno scelto di incenerire la loro nazionalità, anziché l'immondizia. Se esiste l'espulsione degli immigrati clandestini, dovrebbe esistere anche l'espulsione degli italiani che offendono il proprio Paese. Sulla loro carta d'identità alla voce nazionalità, togliete italiana e metteteci: immondizia. Meritano di essere rappresentati dall'immondizia.Finita la risposta emotiva dettata da quelle immagini, lascio da parte la bestialità omeopatica e rifletto. È gente che vive male, immersa nel brutto e nella miseria, dovete capire. È gente che nessuno ha educato e raddrizzato, gente che ha perso la vecchia fede un po' superstiziosa in Dio e nel timor di Dio, nella Madonna e in San Gennaro, nello Stato e nella patria, senza aver guadagnato nel frattempo il senso civico e il rispetto delle norme. Bruciano il tricolore perché l'hanno visto fare, è il linguaggio senza parole della tv; bruciano il tricolore perché danno ancora qualche importanza a quel simbolo, c'è tanta gente che non lo farebbe solo perché non lo prende più in considerazione, per costoro è solo uno straccio retorico del passato. In fondo questo denota che seppur polemicamente i bruciatori di tricolore si sentono ancora italiani, si percepiscono anzi traditi dalla loro madre patria, sono figli delusi e abbandonati... E c'è sempre l'alibi che dell'Italia sono sempre lorsignori, i padroni e i potenti, ad abusarne con il malaffare e il malgoverno; e lorsignori, agli occhi della plebe napoletana, sono globali e transnazionali, sono padani o single, mica sono volgarmente italiani. L'Italia resta la barca dei poveracci che non hanno altre identità da sbandierare. Signor Governo proceda con le compensazioni per i terreni, li risarcisca, so' muort e' fame. Sì, sono ragioni anche queste, ma non mi convincono del tutto. Possono funzionare da attenuanti, ma non assolvono. Spiegano ma non giustificano. Questa gente accetta di vivere nel letame, in mezzo alla delinquenza, a rischio di furti, malattie e sparatorie in piazza, ma poi diventa salutista con la discarica. E poi, vedendo quelle immagini di scontri mi sono ricordato del film Benvenuti al sud che spopola nelle sale cinematografiche: c'è una scena divertente in cui un intero paese di corregionali di Terzigno imbastisce una sceneggiata caricaturale del sud, fatta di violenza, scippi e guapparia, per prendere in giro una signora padana prigioniera dei luoghi comuni antiterronici. Ci siamo divertiti al cinema pensando alla finzione grottesca e alla simpatia terrona; ma ora vedendo quelle scene dei telegiornali, mi pare che la realtà abbia confermato e superato la caricatura. A volte, il sud sa essere perfino peggio di come viene presentato nei film comici o nelle rappresentazioni padane. O meglio, più che il sud, alcune sue parti.E allora torno a dire che mi vergogno di loro. Hanno bruciato la stessa bandiera che ha avvolto pochi giorni fa quattro ragazzi uccisi in Afganistan. Per quella bandiera, migliaia di italiani hanno dato la vita lungo un paio di secoli, e milioni d'italiani, emigrati o rimasti in patria, l'hanno onorata con sobrietà, facendo il loro dovere e lavorando onestamente. Prendersela poi con i poliziotti che si guadagnano il pane e difendono la legge è una carognata; sono figli del popolo anche loro, ricordava Pasolini ai contestatori figli di papà.

Quanto c'è in quel gesto incendiario di disprezzo accumulato verso l'Italia in questi ultimi anni? Parlo di un disprezzo a strati: il più vicino e più vistoso è lo strato dei lazzaroni meridionali che coltivano la polemica antitaliana e antirisorgimentale, mescolando motivazioni sacrosante ad alibi lagnosi o malavitosi. Lo strato seguente di disprezzo antitaliano è il cattivo esempio di alcuni settori nordisti e leghisti, quel rifiuto dell'Italia nel nome della Padania che diventa modello rovesciato anche per il sud. Ma c'è anche uno strato più antico che si vuol dimenticare: è il disprezzo antitaliano coltivato da chi confondeva italianità con fascismo, amor patrio con nazionalismo, identità nazionale con militarismo, dico quella sinistra internazionalista, operaista e snob che detestava le patrie, ieri nel nome del comunismo, preferendo le bandiere rosse alle tricolori; e che oggi le detesta in modo soft nel nome della globalizzazione. Tutti questi strati di disprezzo antitaliano alla fine vengono avvolti nel velo di disgusto di quanti considerano l'amor d'Italia e il tricolore un segno di provincialismo e di necrofilia. In questa piramide, le plebi napoletane contro l'Italia sono nel seminterrato, ad altezza di cassonetto; e forse per questo meritano più degli altri una mezza attenuante.Comunque viva l'Italia, al rogo l'immondizia.

Insignificanti distrazioni..


L’elemento primordiale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel deviare l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dei cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche, attraverso la tecnica del diluvio o inondazioni di continue distrazioni e di informazioni insignificanti…"
Noam Chomsky

venerdì 22 ottobre 2010

19 Ottobre 2010

Negli ultimi mesi, com'è noto, i rapporti tra Israele e la Turchia hanno subito un precipitoso deterioramento. I dissapori tra i due principali interlocutori di Washington sono stati il risultato del sanguinoso assalto alla nave Marmara dello scorso maggio, l'imbarcazione "pacifista" abbordata dalle teste di cuoio isrealiane, che ha fatto 9 vittime fra i turchi. A nulla sono valse le perplessità statunitensi verso il cambio di rotta fra le cancellerie di Ankara e Tel Aviv, la cui relazione sembra destinata ad un finale affatto pacifico. La Turchia, potenza in grande crescita, va contenuta, e allora il governo israeliano si sta dando da fare per stringere e approfondire i suoi legami con la Grecia, avversario storico di Ankara.

Il premier greco Papandreou sarebbe stato il primo a lanciare l'esca, stabilendo una serie di contatti con israeliani e amici dello stato ebraico, uomini d'affari, politici e ambienti dell'intelligence interessati a sviluppare uno scenario del genere. Papandreou, insomma, vorrebbe fare della Grecia il nuovo bastione della Nato nei Balcani e in Europa meridionale, un Paese cristiano pronto a prendere il posto dell'esercito turco. Le forze armate israeliane e greche negli ultimi tempi hanno svolto delle esercitazioni militari comuni e i cieli di Grecia offrono ampi orizzonti per l'aviazione di Gerusalemme. La grave crisi finanziaria di Atene ha bisogno dei floridi mercati di Gerusalemme: esportare gas in Europa è una delle ipotesi se il legame dovesse rinsaldarsi. Senza contare che la Grecia per gli israeliani può essere un canale di comunicazione in più con Bruxelles.

Questa realtà non farebbe altro che spingere la Turchia sulla strada di quel "neo-ottomanesimo" già enunciato dal ministro degli esteri del governo Erdogan: espansione nei Balcani, ingresso in Europa messo sotto formalina, nuove trattative e accordi col mondo arabo meno disposto a trattare con Israele. Eppure lo stretto legame economico e militare che per anni aveva unito turchi e israeliani aveva prodotto una interdipendenza che per entrambe i Paesi sarà difficile rimpiazzare. Ankara si era dimostrata un buon alleato, nella compravendita di armi o nel portare ambasce a Siria e Iran. E’ certo, comunque, che i sottili equilibri del Mediterraneo e del Vicino Oriente stanno cambiando. Per quanto la Turchia abbia rappresentato uno snodo centrale della strategia israeliana, la Grecia potrebbe offrire ampie e insondate prospettive geopolitiche per lo stato ebraico. Forse non tutti i mali vengono per nuocere.

Come tagliare il deficit del 9% di Pil: a Londra però Stampa E-mail
Scritto da Oscar Giannino
giovedì 21 ottobre 2010
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C’è di che riflettere, per i tanti politici italiani che da due anni a questa parte ripetono che tutto sommato ce la passiamo molto meglio dei Paesi anglosassoni, le cui banche all’aria hanno fatto esplodere il debito pubblico. E’ verissimo.

Ma da Londra è venuta una risposta di segno opposto allo statalismo krugmanista che continua a dominare l’America di Obama, vedremo con quale frenata elettorale nelle ormai vicine elezioni del Midterm. La manovra finanziaria varata ieri dal governo Cameron ha un solo aggettivo per essere compresa: epocale. Come abbattere il defit pubblico dall’11% di Pil quest’anno al 2%, entro soli 4 anni. La più grande correzione di finanza pubblica britannica dal secondo dopoguerra, per intensità e concentrazione temporale superiore addirittura per molti versi alla svolta thatcheriana: ben 94 miliardi di euro di tagli alla spesa, 32 miliardi di nuove entrate. In media, ogni ministero subisce un taglio del 19%, ma la logica non è quella lienare adottata in Italia. Il governo cameron sceglie le sue priorità. Le lezioni per l’Italia? Non è vero che le riduzioni in termini reali di spesa pubblica non si possono fare. Non è vero che, facendole, non si debba scegliere che cosa tagliare tantissimo e che cosa tagliare comunque, ma meno o anche per nulla.

Le spese per l’ambiente, ad esempio, e quelle per la cultura incassano i tagli maggiori, del 28%%. La difesa – di cui tanto si parla perché il Regno Unito resta pur sempre al quarta potenza militare mondiale – fanno strepitare i militari ma sono solo dell’8%. I tagli degli apparati ministeriali dell’Interno, della Giustizia e degli Esteri sono del 24%, ma della polizia solo il 16%. I tagli alle Autonomie sono solo del 7%, quelli alla Casa Reale del 14%. L’età pensionabile viene innalzata di 2 anni da 64 a 66 a cominciare dal 2020, cioè 6 anni prima di quanto previsto sino a ieri, ma 30 miliardi di pounds sono riservati a un piano straordinario per le infrastrutture, soprattutto ferroviarie.

C’è da imprarare anche quanto al metodo: a tutti i ministeri è stato riservatamente chiesto negli ultimi due mesi di preparare due bozze di tagli, uno pari al 25% e uno pari al 40% degli stanziamenti a legislazione invariata. Solo il ministero della Salute e quello allo Sviluppo erano esentati. Il risultato è stato non solo il coinviolgimento preventivo di ciascun ministro e del suo apparato nei tagli selettivi, ma soprattutto ha obbligato ciascuno di essi ad incorporare nelle aspettative un taglio che, alla fine, è stato inferiore a quanto il premier e il cancelliere dello Scacchiere aveva chiesto a ciascuno. L’esatto opposto di quanto di solito avviene in Italia, dove da decenni non c’è ministro che non tenti di sottrarsi con polemiche pubbliche in nome dell’eccezionalità del proprio portafoglio.

Quanto alle reazioni, Telegraph e Times hanno dato ampia eco alle prime valutazioni dell’Institute for Fiscal Studies, il più autorevole think tank undipendente britannico in materia di conti pubblici, secondo il quale la manovra è ancora insufficiente. Idem ha fatto il Wall Street Journal. Mentre persino il popolarissimo Sun, invece di cavalcare l’eslosione di malcontento e protesta che sarebbe avvenuta in Italia all’indomani, ha presentato ai suoi lettori la decisione con un secco titolo “Son dolori, ma ne vale la pena”. Ben 490 mila dipendenti pubblici usciranno dal perimetro degli occupati pagati dal contribuente britannico. Ci pensate, a qualcosa di simile in Italia?

Nell’Unione europea, il compromesso franco-tedesco appena celebrato sul nuovo patto di stabilità è di segno opposto, e come ho scritto su questo blog penso che le serie storiche mostrino con abbondanza di esempi che posso capire un patto non rigido, ma senza sanzioni automatiche non è credibile. Ci credo che Trichet punti i piedi, e che in Germania tutti i media abbiano sparato a zero contro la cancelliera Merkel, per aver dato il via libera al fronte lassista. Ma il segnale che viene da Londra è di grande speranza, per chi la pensa come noi ed è convinto che crescita e libertà si ottengano meglio con meno spesa pubblica e meno tasse. Finalmente qualcuno nel mondo anglosassone risolleva vigorosamente la bandiera dello Stato leggero, unica condizione perchè sia efficace con chi ha davvero meno del necessario invece di dispensare rendite a lobby di ogni tipo. E lo fa malgrado guidi un governo di coalizione coi Lib-Dems, non proprio una manica di liberisti. Cameron e il suo cancelliere Osborne mostrano che la soluzione Obama – debiti pubblici galoppanti e banche centrali che li monetizzano – è fatalmente destinata alla sconfitta politica, oltre che alla stagnazione economica.

Da:http://www.chicago-blog.it/

Sembra Blade Runner..è la realtà!



Lotta al terrorismo e strategie hi-tech
Con la "biometrica" gli americani mettono all'angolo i Talebani
Gabriele Cazzulini22 Ottobre 2010
Come disse una volta Mao, i ribelli sono come pesci che nuotano in un mare di uomini. Invisibili e dispersi: per debellare i Talebani in Afghanistan occorre una continua presenza sul territorio unita ad una serrata sorveglianza sull’intera popolazione. La potenza di fuoco delle armi, le grandi strategie militari, le alleanze politiche non sono più fattori discriminanti.
Per neutralizzare questa asimmetria sul piano militare, che sembra paradossale pensando alla potenza della macchina bellica degli occidentali, gli americani hanno messo in gioco il fattore tecnologico – che può veramente ribaltare la situazione perché la tecnologia è quanto di più irraggiungibile ci sia per i Talebani. Così in Afghanistan la Nato, d’intesa col governo di Kabul, ha iniziato ad utilizzare le tecniche biometriche nella prevenzione degli attentati, nel monitoraggio delle infiltrazioni talebane nella polizia e nelle forze armate, e in una sorveglianza più attendibile della popolazione nelle zone più critiche. In linea di massima, la biometrica è un insieme di tecniche per il riconoscimento dell’identità basate su caratteristiche comportamentali o fisiologiche.
Nel caso dell’Afghanistan, gli americani utilizzano il rilevamento dell’iride e delle impronte digitali. Il successo in Iraq, risale addirittura ai tempi dell’assedio di Fallujah del 2007, quando gli americani ricorsero alla biometrica per controllare ingressi e uscite dei civili e così individuare i ribelli. Il metodo è stato esportato in Afghanistan dal generale Petraeus. Ora è in corso un “tecno-censimento” degli abitanti delle aree a rischio. Il coordinamento è nelle mani della Biometric Task Force (Btf) istituita già nel 2004 presso il Pentagono. Per operare sul campo, la Btf ha inviato ai militari della Nato in Afghanistan un Biometric Automated Toolset (Bat). E’ un kit di dispositivi per il rilevamento dei dati e il loro invio nel server di raccolta. Il successo è innegabile: le prime postazioni per i controlli biometrici furono installate nell’area intorno all’aeroporto di Kabul. Il risultato fu una sensibile riduzione non solo degli attacchi terroristici, ma dei tentativi di attacco.
Nell’ottica della contro-guerriglia, questa è una vittoria indiscutibile. Tra Iraq e Afghanistan, nel solo 2009 grazie alla biometrica sono stati individuati e arrestati oltre quattrocento ricercati di primo piano. Anche politicamente è una strategia molto più sicura e mirata rispetto all’impiego della forza militare e della sua quota fissa di vittime civili, un effetto collaterale politicamente sgradevole. Per questo le truppe Nato stanno procedendo ad un censimento biometrico sempre più ampio della popolazione, così da creare una “terrorist watch list” basata su proprietà che non sono alterabili, come invece accade con liste basate soltanto sui nomi.
La guerra al terrorismo delinea un quadro sempre più hi-tech. I Droni aerei si muovono nei cieli dell’Afghanistan per intervenire sulle alture più impervie, le aree desertiche e i luoghi dove è più radicata la guerriglia talebana. Le telecamere fisse ad alta risoluzione che sorvegliano i centri più importanti iniziano ad essere dotate di scansione termica e infra-rossi per individuare ogni movimento sospetto. Infine il pattugliamento, finora il più esposto agli attacchi, si rafforza con la rilevazione biometrica per sradicare con massima efficacia gli elementi ostili – basta uno strumento grande come un iPod. Più che le armi, la tecnologia è la vera forza che può consentire all’Occidente di stroncare il terrorismo senza ricorrere ad altra violenza.

Non c'è rimedio Chiudete la RAI subito


di Marcello Veneziani
Impossibile perdere tempo ogni giorno dietro a conduttori che insultano i loro direttori. Mettiamo le tre frequenze sul mercato, al miglior offerente. Grottesche le mezze misure, le tirate d'orecchi e le sospensioni: meglio affidarsi alla libera competizione
Sciogliete la Rai. Non c’è altra soluzione. Lo dice uno che credeva al servizio pubblico e, pensate, perfino al ruolo educativo della tv. Ma l’Italia, il governo e il Parlamento non possono occuparsi ogni giorno delle parole di Santoro, dei contratti di Benigni, degli ultimatum di Fazio e degli arrangiamenti di Masi. Un Paese non può dividersi sui contratti agli artisti e sugli insulti ai direttori. Meglio chiudere baracca e burattini e lasciare campo al libero mercato. Le tre reti principali lasciatele ai migliori offerenti, con diritto di prelazione a cooperative di dipendenti, amatori e ispiratori della rete. Chi ama Raitre si paghi il canone per farsene carico; chi ama il suo rovescio faccia altrettanto con un’altra rete, per esempio Raidue, che non esiste più da quando finì l’era craxiana. O paghi un canone per Raiuno chi pretende un’informazione più ufficiale, meno schierata, tendenzialmente governativa a prescindere dai governi in carica. Non sono un seguace entusiasta del federalismo fiscale, ma in questo caso ci starebbe bene: ognuno paga la rete che vuole e la rete spende i soldi che i suoi utenti versano a lei. Più quello che ciascuna rete raccoglie di pubblicità sul mercato. È la fine del servizio pubblico, direte, è l’apoteosi della lottizzazione al suo stadio più esplicito e brutale. Sono d’accordo e mi dispiace un sacco. Ma non si può sopportare questo scempio quotidiano, questa porcata giornaliera, e questa impossibilità di venirne fuori. Ci sono censure vere che passano sotto silenzio perché fanno comodo un po’ a tutti i dignitari politici della Rai: spariscono dal video o non vi approdano gli irregolari che non appartengono ai blocchi di potere e ai partiti dominanti, compresi i partiti editoriali che ci sono in Italia. Non trovano spazio gli incontrollabili che, pur avendo un’identità precisa, non vanno in quota partiti e non prendono ordini dai poteri. Ci sono invece mezze censure, o censure presunte, che diventano oggetto di guerra, di vertenza e di teatro. La Rai fa molto più spettacolo fuori dai suoi schermi che dentro. Se la Rai è in trattativa con un divo «de sinistra» ed entrambi tirano sul prezzo, la trattativa viene presentata come una lotta per la libertà contro il fascismo e un’eroica resistenza contro un tentativo di censura. L’azienda non può cercare di contenere i costi, inguaiata com’è; se lo fa, vuol dire che usa a pretesto i soldi per censurare i programmi. Dammi centomila o ti sputtano come dittatore: questo in sintesi il «raicatto» della malavita organizzata in sinistra televisiva. E non c’è giorno che non emetta ultimatum come se fosse una potenza straniera pronta alla dichiarazione di guerra e all’attacco armato: dacci carta bianca o ti facciamo a pezzi. Un giorno o l’altro recapiterà a Berlusconi un orecchio, un testicolo e un baffo di Masi. No, non si può andare avanti a discutere se bisogna lasciar fare per non farsi accusare che si è tiranni o se censurare, fregandosene bellamente degli attacchi. Ancora più grottesche le mezze misure, le tiratine d’orecchi e le sospensioni con ampia facoltà di esternazione in video, che amplificano il martirio senza fermare l’abuso. Non è meglio, a questo punto, rompere le righe e affidarsi alla libera iniziativa? Lo dico da cittadino e da utente, ma anche da ex-consigliere e collaboratore della Rai. Se la Rai non fosse ingessata dai padroni di fuori e dai vigliacchi di dentro, se la Rai non fosse eterodiretta e succuba di troppi poteri, non giocherebbe sempre in difesa, ma andrebbe all’attacco. Smetterebbe di studiare come frenare Santoro, il predicozzo di Benigni o il «dossieraggio» di Report (lo chiamo così come loro chiamano le inchieste giornalistiche mirate, come quelle che riguardano Fini o Berlusconi). Lascerebbe loro libero campo, magari convogliandoli nella stessa rete per coerenza editoriale e garanzia dell’utente; ma poi andrebbe all’attacco. Il miglior modo per rilanciare la Rai e bilanciare le presenze moleste è rompere gli equilibri, svecchiare, innovare. Per esempio, una Raidue vivace si sarebbe accaparrata un Antonello Piroso, indipendentemente dalle sue opinioni politiche, dopo che è stato ingiustamente accantonato da La7 per far posto ad un altro bravo come Mentana. Dico ai lottizzatori cretini: la bravura fa più fatturato politico di un programma allineato che non vede nessuno. Una Raiuno vivace non lascerebbe il monopolio all’ottimo Vespa, che è sì la sua colonna principale, ma neanche San Pietro regge su una sola colonna, bensì su un colonnato: e allora magari avrebbe puntato al suo interno su Minoli, che ha il difetto di essere in quota se stesso; avrebbe cercato di portarsi il meglio che offre la concorrenza (facendo scouting nelle private). Avrebbe corteggiato spietatamente un Giuliano Ferrara, che si chiama fuori dal video. Avrebbe sperimentato in reti secondarie e in fasce orario marginali nuovi talenti interni, magari di diversa opinione; immetterebbe come editorialisti di rete o di testata firme giornalistiche mordaci della carta stampata. Invece il nulla. Lo so per esperienza personale, avendo vanamente proposto, quando ero in consiglio, non pochi innesti e perfino una rete ad hoc per testare emergenti promesse. Ma ai politici queste cose non interessavano: l’importante è vedere come sono trattati loro dalla Rai e i loro famigli, suocere incluse. Al partito Rai nemmeno: guai a toccare la mummia, se sposti un cameraman metti a rischio la democrazia Ma se non si riesce a stare sul mercato, a essere agili e innovativi, in sintonia con i propri tempi, se non si ha la possibilità sovrana di decidere, meglio tagliare la testa al toro e sciogliere la Rai. Questo braccio di ferro su quanto spazio concedere e fino a che punto sopportare il Nemico o l’Invasore, è tristemente ridicolo ed è pure noioso. Cambiate programma, per favore.


La Guerra contro gli Ebreidi Rupert Murdoch(Traduzione a cura di Laura Camis de Fonseca)
Rupert Murdoch
Nel vedere il Primo Ministro d'Israele attaccato dal Presidente Americano, la gente vede lo stato d'Israele più isolato.
Oggi nel mondo è in corso una guerra contro gli Ebrei. Nei primi decenni dopo la fondazione dello stato di Israele la guerra fu di natura convenzionale, l'obbiettivo diretto: distruggere Israele a mano armata. Ma ben prima che cadesse il muro di Berlino questo approccio era fallito. Allora giunse la seconda fase: il terrorismo. I terroristi presero di mira gli israeliani a casa e all'estero: dal massacro degli atleti israeliani a Monaco alla seconda intifada. I terroristi continuano ad attaccare gli Ebrei nel mondo anche oggi. Ma non sono riusciti ad abbattere il governo israeliano, nè a indebolire la determinazione degli israeliani. Ora la guerra è in una terza fase: è una guerra 'soffice' che vuole isolare Israele delegittimandolo. Il campo di battaglia è ovunque: nei mezzi di comunicazione, negli organismi internazionali, nelle ONG. In questa guerra l'obbiettivo è fare di Israele lo stato pariah. Il risultato è la assurda situazione odierna: Israele subisce sempre più l'ostracismo, mentre l'Iran, che non nasconde di volere la distruzione di Israele, si dota di armi nucleari apertamente, orgogliosamente, apparentemente senza tema di ritorsioni.
Per me che questa sia guerra è una ovvia realtà: ogni giorno i cittadini della nazione ebraica si difendono da armate di terroristi dotati di carte geografiche che rappresentano l'obbiettivo: un Medio Oriente senza Israele. In Europa gli Ebrei sono sempre più nel mirino di persone che hanno lo stesso scopo. E qui negli USA temo che la nostra politica estera sostenga a volte gli estremisti.
Due cose soprattutto mi turbano: la nuova preoccupante accoglienza che l'antisemitismo trova nella buona società, soprattutto in Europa. E l'incoraggiamento che alla violenza e all'estremismo giunge nel vedere il maggiore alleato di Israele prendere le distanze.
Quando noi Americani pensiamo all'antisemitismo, tendiamo a pensare alle volgari caricature e agli attacchi della prima metà del XX secolo. Oggi i filoni più virulenti di antisemitismo sembrano essere a sinistra. Spesso questo antisemitismo si ammanta della veste del legittimo disaccordo. Già nel 2002 il presidente di Harvard Larry Summers diceva: "mentre l'antisemitismo e le opinioni radicalmente nemiche di Israele sono tipiche di demagoghi di destra di basso livello culturale, opinioni profondamente anti-israeliane trovano sempre più sostegno in sfere intellettuali progressiste. Seri intellettuali sostengono o intraprendono azioni che sono anti-semite nei risultati, anche se non lo sono negli intenti". Summers parlava degli ambienti universitari, ma anche lui era, come me, preoccupato dagli sviluppi in Europa.
Ben lungi dall'essere rifiutato a priori, l'antisemitismo oggi ha il sostegno degli strati più bassi e più alti della società europea: dall'elite politica alle periferie-ghetto a preponderanza islamica. Gli Ebrei europei si trovano presi in questa tenaglia. Ne abbiamo visto un esempio quando il Commissario Europeo per il Commercio ha dichiarato che la pace in Medio Oriente è impossibile per colpa della lobby ebraica in America. Ecco le sue parole: "La maggior parte degli Ebrei hanno la convinzione - difficile definirla diversamente - di aver ragione. E non dipende dall'essere Ebrei religiosi o no. Anche gli Ebrei laici condividono la convinzione di avere ragione. Così non è facile avere una discussione razionale su quanto avviene in Medio Oriente neppure con gli Ebrei moderati." Il Commissario non ha indicato una specifica politica israeliana come fonte del problema. Il problema, così come lui l'ha espresso, è la natura degli Ebrei. Per poi aggiungere assurdamente, in risposta alle critiche, che ‘l'antisemitismo non ha spazio nel mondo contemporaneo ed è contrario ai valori fondamentali dell'Europa’. Naturalmente, è ancora al suo posto di Commissario Europeo.
Sfortunatamente si vedono esempi simili ovunque in Europa. La Svezia, per esempio, è stata a lungo sinonimo di tolleranza liberale. Ma in una delle sue maggiori città, a Malmoe, gli Ebrei denunciano crescenti episodi di intimidazione. E quando una squadra di tennisti israeliani venne per un torneo fu accolta da tumulti. Come reagì il sindaco? Equiparando l'antisemitismo all’antisionismo, e suggerendo agli Ebrei svedesi di prendere le distanze dall’operato di Israele a Gaza, se vogliono sentirsi più sicuri in città. Non occorre andar lontano per trovare altri segnali di pericolo: il governo norvegese proibisce a un costruttore di navi tedesco - che produce in Norvegia - di usare le acque norvegesi per l'immersione di prova di un sottomarino per la marina israeliana. E l'Inghilterra e la Spagna boicottano un congresso turistico a Gerusalemme. In Olanda, le statistiche della polizia mostrano un incremento del 50% di incidenti antisemiti.
Forse non dovremmo sorprenderci. In una tristemente famosa indagine di qualche anno fa gli Europei indicarono in Israele il maggior pericolo alla pace mondiale, dopo l'Iran e la Corea del Nord!
Oggi in Europa molti attacchi contro Ebrei, simboli ebraici e Sinagoghe sono condotti dalla popolazione musulmana. Sfortunatamente la reazione ufficiale, anziché render chiaro che tale comportamento non è tollerabile, troppo spesso è quella che abbiamo visto nel sindaco di Malmoe, che implica che gli Ebrei e Israele se la sono cercata. Quando i capi politici europei non si oppongono ai prepotenti, danno credito all’idea che Israele è la fonte dei problemi del mondo- e istigano altra violenza. Se questo non è antisemitismo, non so che cosa sia.
Questo mi porta al secondo punto: l'importanza del rapporto fra Israele e gli USA. Alcuni pensano che, se gli USA vogliono acquisire credibilità nel mondo islamico e operare in favore della pace, debbano prender le distanze da Israele. Secondo me è esattamente il contrario. Anzichè rendere più plausibile la pace, renderemmo più certa la guerra. Anzichè migliorare le condizioni dei Palestinesi, inasprire i rapporti fra gli USA e Israele garantirebbe la continuazione delle sofferenze dei Palestinesi. La pace che tutti vogliamo ci sarà quando Israele si sentirà al sicuro, non quando Washington si sentirà lontana dalla mischia.
Ora c'è una condizione di guerra. La guerra è condotta da molte parti. Alcuni fanno saltar per aria i ristoranti. Altri lanciano razzi sulle case dei civili. Altri si dotano di armi nucleari. Altri combattono la guerra 'soffice' tramite boicottaggi e risoluzioni di condanna di Israele. Ma tutti guardano con attenzione ai rapporti fra Israele e gli USA. Mi è piaciuto, a questo riguardo, il chiarimento del portavoce del Dipartimento di Stato la scorsa settimana, circa la posizione americana. Ha detto che gli USA riconoscono “la natura speciale dello stato di Israele, che è lo stato del popolo ebraico. E' un messaggio importante per il Medio Oriente. Ma se la gente vede un Primo Ministro ebreo attaccato dal Presidente americano, vede uno stato ebraico più isolato. Questo incoraggia soltanto quelli che preferiscono le armi ai negoziati.
Nel 1937 un certo Vladimir Jabotinsky faceva pressione sull'Inghilterra perché aprisse una via di fuga per gli ebrei che fuggivano dall'Europa. Soltanto una patria degli Ebrei poteva proteggere gli Ebrei d'Europa dall'imminente catastrofe, diceva. Con parole profetiche descriveva così il problema: "noi patiamo non tanto per l'antisemitismo delle persone, ma per l'antisemitismo della realtà, per l'inerente xenofobia degli organi sociali ed economici".
Il mondo del 2010 non è quello degli anni '30. I pericoli per gli Ebrei oggi sono diversi. Ma sono pericoli reali. E sono pericoli ammantati di una linguaggio odioso ben noto a chiunque sia abbastanza vecchio da ricordare la seconda guerra mondiale. Si tratta di pericoli che non si possono affrontare con successo se non capiamo che cosa sono: parte della guerra in corso con gli ebrei.

mercoledì 20 ottobre 2010

Pensiero zero by Celentano



di Vittorio Sgarbi
L’Italiano è precipitato. E si manifesta nelle idee, nella lingua e nella vita di Adriano Celentano. Un uomo titolare di un pensiero gratuito che fa pagare a caro prezzo. Una singolare antinomia che si manifesta tutta nell’articolo apparso sul Corriere di ieri, dal quale (...)(...) risulta una incondizionata ammirazione per un altro depensante come lui: Beppe Grillo, inventore di un partito che non è un partito. In realtà, non sapendo cosa pensare, Celentano, finge di attaccare e dà ragione a tutti. Così, nel suo argomentare sconclusionato, prima che sgrammaticato, riesce a dar ragione (e torto) contemporaneamente a Fini, a Berlusconi, a Bossi, a Maroni, a Rosy Bindi, a Di Pietro, a Santoro, a Veronesi, a Belpietro. Il suo procedere è ammiccante, fatto di gomitate e pacche sulle spalle, in un sostanziale perbenismo che è tipico dell’Italiano che non vuole grane. La spara grossa, ma cerca complicità, anche con colui che attacca. Alla fine dei vaniloqui, nel genere «io confido nella “DEMOCRAZIA della LIBERTÀ”», ovvero «tutto mi fa pensare che il vero democratico ha il senso della misura in ogni sua manifestazione», mi fa piacere che gli unici di cui parla male siano Masi e Sgarbi. È naturale che per uno che è andato in televisione per non dire nulla, ma con la leggenda del grande cantante che è stato, ottenendo compensi miliardari, un direttore della Rai che è obbligato a mandare in onda un programma con un conduttore imposto, negli orari stabiliti dalla magistratura, non è un direttore dimezzato che cerca di reagire a gratuiti insulti, soverchiato da una ridicola demagogia, ma un dittatore che vuole «limitare la libertà d’espressione». Come sempre, in chi parla a vanvera, la falsa indignazione, l’atteggiamento scandalizzato prevalgono sulla verità dei fatti. Così Celentano si dimentica di dire che il crudele dittatore che ha pensato di sospendere Santoro non ha ottenuto alcun risultato. Perché, con tutto il vittimismo di Santoro, la sospensione è stata sospesa. Di cosa parla, dunque, Celentano? Poi, reduce da una delle sue tante noiose serate in cui sta in casa e guarda la televisione, si occupa di me, e scrive che sono «in ritardo di qualche decennio» non avendo «la minima cognizione di cosa significhi la parola “INNOVAZIONE”». Così, non accorgendosi di annaspare nella contraddizione e di riconoscere inconsapevolmente l’espressività del turpiloquio, cerca di spiegare ciò che non capisce. Premette: «Democrazia vuol dire anche perfezionare i toni durante un dibattito». Spiega, di me, che «in netto contrasto con l’arte di cui faccio professione, disconosco invece un elemento fondamentale che è insito nell’ARTE e che è appunto IL CAMBIAMENTO». Afferma che dal 1989 non sono cambiato di una virgola, faccio sempre le stesse cose. Cioè insulto. Così, per essere diverso e «perfezionare i toni», pensa bene di imitarmi: «Ma vaffanculo Sgarbi, adesso ci hai proprio rotto i coglioni!!!». Non potevo sperare in un migliore allievo, e devo ringraziarlo dell’attenzione e anche del privilegio di non leccarmi il culo come fa con Fini, Grillo, Berlusconi, Maroni, Bindi, Santoro. Poi dice a me: «Il tuo prevedibile e nauseante sbraitare è un registro vecchio e stravecchio come la guerra del ’15-18. Cosa aspetti a cambiare? Lo sai almeno in che anno siamo?... Poi non piangere se in televisione non ti invita più nessuno». E qui non lo seguo. Io vado in televisione tutti i giorni, esprimo il mio pensiero, spesso in modo pacato, ogni tanto incontro un cretino a cui, in modo schiettamente «rock» e talvolta «rap», dico quello che si merita per evitare che continui a dire scemenze. È il caso di «fascista, fascista, fascista», all’indirizzo di chi ignora che in democrazia, come sa perfino Celentano, i partiti sono la libertà. Perché, non essendoci un partito unico, uno può scegliere di essere liberale, repubblicano, socialdemocratico, radicale, restando indipendente. Come lo furono, in condizioni difficili, Gramsci e Croce. Appartenere a un partito non vuol dire essere servi o dipendenti, vuol dire scegliere idee e valori. Se, per affermarlo, devo interrompere uno che dice le banalità alla Grillo, il quale per essere libero, contro i partiti, fa un partito, lo interrompo con forza. Una differenza fra me e Celentano, nell’andare in televisione, invitato, è che io, non volendo rinunciare a essere Sindaco, orgogliosamente, per dignità civile, non vengo pagato. Celentano invece il suo pensiero lo mostra soltanto a pagamento, e senza offrire una merce particolarmente pregevole. Io continuerò ad andare gratis, perché voglio esprimere il mio pensiero, non venderlo. Ed è per questo che sto dalla parte di Masi, e mi fanno ridere le false vittime come Santoro e i piagnoni come Fazio. Dunque, esiste una pseudo-norma per cui chi fa politica non può essere pagato dalla Rai. Per questo, io, Sindaco, non vengo pagato. Benigni, che non ha ruoli, ma fa politica, per esprimere le sue libere idee è stato invitato a Sanremo e pagato 370mila euro per mezz’ora. Ora, per andare da Fazio, a esprimere le sue originalissime idee, ha chiesto «solo» 250mila euro. Per evidenti ragioni economiche, Masi non ha firmato il contratto e, per le stesse ragioni, non invita tutti i giorni Celentano, il cui pensiero è «caro». Ma la traduzione di questo elementare impedimento è: «Alla Rai hanno paura dei contenuti». Fazio fa la vittima, e soltanto adesso apprendiamo che Benigni ha dichiarato di essere disponibile ad andare anche gratis. Stiamo a vedere. Invito a farlo anche Celentano, in un confronto con me a Domenica In o dove vuole lui. Così possiamo vedere chi ha qualcosa da dire, e come, e in che lingua. Intanto io suggerisco, come già ho fatto, al direttore Masi, non di ospitare gratuitamente Benigni o Celentano, ma di offrire loro una cifra equa, solo dieci volte (non 250) lo stipendio mensile di un professore di italiano, 15mila euro, a puntata. Darebbero una prova di serietà e di civiltà, non invocando le leggi di mercato e il loro valore, ma facendo quello che faccio io, che vado gratis, e valgo più di loro.

martedì 19 ottobre 2010

quando lui ha ragione(?!) e noi torto..

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Annamaria Fornara ha tre figli, un maschietto e due ragazze. Il suo ex marito, Said Soukri, l’ha conosciuto agli inizi degli anni Novanta quando lo intervistò per parlare di immigrazione. Iniziarono a frequentarsi, si sposarono, e la loro sembrava una vita tranquilla come tante. Poi l'uomo ha iniziato ad andare sempre più spesso in moschea, imponendo ai familiari l’osservanza dei precetti religiosi musulmani e chiedendo alle moglie di convertirsi. Quando Annamaria ha scelto di separarsi, Said ha lasciato l’Italia portandosi via due ragazzi in Marocco. Ma la donna non si è arresa e ha raggiunto Casablanca per avere giustizia. Le abbiamo chiesto di raccontarci com’è andata e a che punto è questa vicenda.

Annamaria, come sta andando il processo in Marocco?

Sta andando bene nonostante le difficoltà iniziali. La Convezione dell’Aja per i diritti dell’infanzia purtroppo non viene ancora applicata da Italia e Marocco, nonostante sia stata sottoscritta e ratificata da entrambi i Paesi. Ma ci sono delle incongruenze legislative, per esempio sulla cittadinanza da attribuire ai miei figli.

Si dice che il Marocco stia sperimentando un diritto di famiglia innovativo rispetto al resto del mondo islamico

Se in passato il padre aveva tutti i diritti sui figli ora anche la madre ha voce in capitolo. E' a lei che vengono affidati i minori in prima battuta in caso di separazione. Peccato che nei prossimi dieci anni questa legge verrà applicata accanto a quelle tradizionali... C’è poi un ulteriore difficoltà: in Marocco non si fa differenza fra separazione e divorzio; alle autorità marocchine non è bastato far seguito alla sentenza sull’affido dei miei figli, hanno dovuto “delibarla”, cioè emetterne un’altra uguale ai sensi della legge marocchina. Questo ha allungato i tempi processuali. Aspetto a giorni la sentenza definitiva.

Qual è il suo stato d’animo?

Se la legge dice che i figli devono essere affidati alla madre, nonostante tutto, sono fiduciosa.

Che atteggiamento hanno avuto le autorità marocchine?

Non sono state un ostacolo se è quello che vuol sapere, lo scontro fra Italia e Marocco per adesso è stato evitato. Devo dire che a sostenermi c’è anche il centro culturale islamico di Omegna: hanno condannato mio marito e promosso una manifestazione pubblica a mio favore.

E quelle italiane?

C’è stata una buona risposta, sia a livello locale, sia da parte del nostro consolato a Casablanca, sia alla Farnesina. Non avrei mai sperato tanto.

Che farà se non dovesse farcela a riportare a casa i ragazzi?

Non ho un “Piano B”. Sono qui per riportarli indietro e basta. Quando torneremo avremo tempo per parlare di Dio e dei diversi modi per pregarlo, in modo che ognuno sia libero di compiere le proprie scelte sulla base della fede. Ma in fondo, da quando ci siamo sposati, in casa nostra c'è sempre stato spazio per discorsi del genere.

Ecco, appunto, cosa vuol dire vivere in una famiglia musulmana?

Se la famiglia garantisce il rispetto delle diversità – com’è accaduto crescendo ai miei ragazzi – e se il capofamiglia si adegua a questo clima, credo che si tratti di una opportunità di fare scelte consapevoli, un'opportunità che pochi hanno a disposizione. Se invece il rispetto non c'è diventa una spada di Damocle, è solo una questione di tempo.

Quand’è che ha capito che la relazione con suo marito si stava deteriorando?

Dalla fine del 2008 i rapporti fra la mia figlia maggiore e il padre hanno raggiunto momenti drammatici e riconosco che allora non gli diedi il giusto peso. Volevo solo mantenere unita la mia famiglia al di là di tutto. Nel 2009 il mio ex marito mi ha proposto di convertirmi all’Islam. "Non voglio obbligarti – disse – ma se non ti converti non possiamo più restare assieme".

Che consigli darebbe a chi vive una condizione simile alla sua?

Di prendere i propri figli e trasferirsi in un luogo sicuro, protetto, da cui eventualmente discutere con calma e serenità. Occorre tempo per leggere e studiare le leggi, gli usi e i costumi del Paese natale del coniuge, se non si conoscono. Probabilmente sembrerò poco diplomatica nel dire queste cose, ma le mie ferite sono ancora fresche e sanguinati.

Ci sono donne che ignorano i rischi a cui vanno incontro?

Una ragazza italiana che si sposa tende a dare per scontato molte cose che invece all’interno di una cultura diversa dalla nostra non lo sono e hanno un peso enorme. Penso all’autorità sui figli davanti alla legge o alla libertà religiosa. Ma credo che questo discorso valga per qualsiasi cultura, si parli di Europa o Sud America. La legge italiana dovrebbe permettere ai figli nati da matrimoni misti di fare una esperienza diretta delle culture di provenienze dei genitori. Ci sono donne che oltre alla persona che amano sposano anche il mondo da cui proviene.

Che mondo è quello islamico?

Non ci sono prescrizioni per gli uomini che vogliono sposare donne cristiane o di fede ebraica; sembrerebbe, dico per dire, un atto di generosità. In realtà si dà per scontato che la donna, presto o tardi, seguirà la religione del marito, e ovviamente questo potrà avere delle ripercussioni sulla educazione religiosa dei figli. Non so se sia possibile normare una situazione del genere, quello che si può fare è rendere applicabile la Convenzione dell’Aja. Se lo fosse a quest’ora le scriverei dal mio pc di casa litigando con i ragazzi che vogliono usarlo per giocare.

Lei che percezione ha dei rapporti tra Islam e Occidente?

L'islam è vicinissimo, a noi e ai nostri figli, e il dialogo non è un’opzione ma una necessità assoluta. Ci vivo a contatto da quasi vent’anni e devo dire che dopo l’11 Settembre sono cambiate molte cose, in peggio. C’è stata una chiusura da entrambe le parti. Ci sono ambienti del mondo islamico che vedono ogni passo verso l’Occidente come un attentato alla propria fede.

E Casablanca?

Qui si sente ancora voglia di cambiamento. Ogni casa, ogni singolo appartamento, ha una antenna parabolica, e alle donne comincia a stare stretto il ruolo che hanno avuto per generazioni. Sanno che appena al di là del mare le cose funzionano diversamente. Sono convinta che saranno le donne a cambiare questa realtà. Saremo noi.

C’è uno spiraglio di luce?

Qualche giorno fa ho potuto rivedere i miei figli.

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