guerra all'italico declino

FEDERALISMO; necessità italica di DITTATURA CORRETTIVA a tempo determinato per eliminazione corruzione, storture e mafie; GIUSTIZIA punitiva e certezza della pena; LIBERISMO nel mercato; RICERCA/SVILUPPO INNOVAZIONE contro la inutile stabilità che è solo immobilismo; MERCATO DEL LAVORO LIBERO e basato su Meritocrazia e Produttività; Difesa dei Valori di LIBERTA', ANTIDOGMATISMO, LAICITA' ;ISRAELE nella UE come primo baluardo di LIBERTA'dalle invasioni. CULTURA ED ARTE come stimolo di creatività e idee; ITALIAN FACTOR per fare dell'ITALIA un BRAND favolosamente vincente. RISPETTO DELLE REGOLE E SENSO CIVICO DA INSEGNARE ED IMPORRE

martedì 31 gennaio 2012

La storia del pensiero politico è un lungo confronto con la violenza: con omicidi e brigantaggi, sommosse e guerre civili, usurpazioni e sopraffazioni, nemici esterni e criminali interni. Non solo: la politica deve fare i conti con la propria interna violenza. Infatti, la politica si struttura attraverso le differenze di potere fra persone e gruppi sociali. E la violenza sta all´origine del potere. Il potere è violenza che ha trovato una interna misura – esterna o interna –, una forma di consenso: è violenza controllata e legittimata, istituzionalizzata e finalizzata a obiettivi durevoli. […]. La violenza…strumentalizza chi ne è oggetto (lo piega, lo opprime, lo spezza), e nega così quel valore infinito della persona che la nostra civiltà pone a proprio emblema. Ma perché questa finalità umanistica non sia vuota declamazione, bisogna sapere individuare la violenza in tutte le forme che assume – alcune delle quali interne alla stessa civiltà che la vorrebbe bandire –

DECAPITIAMOLI! -3-

È bastato annunciarlo per far credere che fosse vero: “finalmente anche i politici si tagliano lo stipendio”. Si tratta di 1.300 euro lordi, circa 700 netti al mese. Una magra consolazione per tutti i cittadini che sono chiamati a fare sacrifici, di fronte ad una “casta” che difende l’indifendibile. Una consolazione ancora più magra quando si viene a scoprire che il taglio è un vero e proprio bluff.
 Torniamo per un attimo a dicembre: vi ricordate tutta la polemica per l’eliminazione dei vitalizi e sul passaggio dal sistema retributivo e a quello contributivo per i parlamentari? Bene, quella riforma ha da una parte eliminato i privilegi di cui godevano deputati e senatori riguardo al periodo successivo all’incarico parlamentare (riducendo, tra le altre cose la pensione di quasi la metà del valore attuale), ma ha permesso l’emersione di una quota di reddito precedentemente impiegata per il versamento del contributo per il vitalizio. In pratica, i nostri eletti si sarebbero ritrovati con 700 euro in più in busta-paga.
Così, per evitare che la notizia dell’aumento dello stipendio venisse alla luce, i parlamentari hanno provveduto ad eliminare l’aumento appena percepito. “Si tratta di decisioni definitive e ad effetto immediato”, ha spiegato il vicepresidente Rocco Buttiglione al termine della riunione di ieri a Montecitorio. Il taglio varrà per tutti i deputati, mentre si dovrà aggiungere un ulteriore taglio del 10% per quei deputati che svolgono un ruolo ulteriore, come i presidenti di commissione. Insomma, da dicembre ad oggi, deputati e senatori si ritroveranno con lo stesso stipendio. Cambia solo un aspetto: il rimborso per le spese destinate ai collaboratori parlamentari sarà per metà forfettario (ora lo è al 100%) e per l’altra metà dovrà documentato o con l’assunzione del collaboratore o con la documentazione delle spese sostenute. I soldi risparmiati? Secondo il questore del Pdl, Antonio Mazzocchi, questi 1.300 euro che verranno tagliati saranno accantonati in un fondo a tutela di eventuali ricorsi da parte dei deputati. Dov’è quindi il risparmio per le casse dello Stato?
Se la notizia degli stipendi aumentati fosse uscita, li avrebbero linciati. Così hanno deciso non di tagliarsi lo stipendio, ma di rinunciare a quell’aumento. Provando a fare bella figura.
Gratis

Nazi HUNTER Mark GOULD 2^parte


 Bernhard Frank..
«Se le persone sono inferiori dal punto di vista umano o della razza (...) vanno fucilate tutte»


C’ è voluto un broker di informazioni improvvisatosi storico per riuscire nell’impresa in cui i cacciatori di nazisti avevano finora fallito: far riaprire le indagini contro Bernhard Frank, uno dei più noti gerarchi delle SS ancora in vita. Che l’intraprendente Mark Gould non sia uno storico nel senso classico del termine balza subito agli occhi: per le sue ricerche non ha né spulciato negli archivi, né letto decine di libri su Hitler, bensì ha lasciato la sua Los Angeles, si è trasferito in Germania e si è mimetizzato per quattro anni negli ambienti neonazisti. Ha assunto il loro linguaggio, si è tagliato i capelli a zero, ha partecipato alle riunioni dei nostalgici. E alla fine è riuscito a smascherare l’uomo che il 28 luglio del 1941 aveva controfirmato un ordine che condannava a morte gli ebrei delle paludi della Polesia, tra Ucraina e Bielorussia. Tra le vittime c’erano anche 28 familiari di Gould, che ha origini ebraiche.

«Smascherare», in realtà, è un termine relativo: Bernhard Frank non si è mai nascosto, perché nessuno l’ha mai incriminato. Oggi ha 97 anni e gli ultimi decenni li ha passati indisturbato nei pressi di Francoforte sul Meno. Ha addirittura dato alle stampe due libri autobiografici, ancora disponibili sugli scaffali virtuali della libreria online Amazon. Nell’ultimo, uscito nel 2004, racconta di quando, nel 1943, fu nominato comandante e responsabile della sicurezza del Berghof, la residenza di Hitler sulle Alpi Bavaresi. E come, due anni dopo, ricevette l’ordine di uccidere il capo della Luftwaffe, Hermann Göring, colpevole di voler prendere il posto di Hitler.

Frank arrestò Göring per alto tradimento, ma gli risparmiò la vita. Dopo la fine della guerra consegnò senza opporre resistenza il Berghof alle truppe Usa e si ritirò a vita privata, lasciando perdere le sue tracce. Almeno fino a quando alla sua porta non ha bussato il quarantatreenne Mark Gould. Arrivato a lui in modo rocambolesco: a Los Angeles aveva conosciuto per affari una persona che, tra le altre cose, vendeva anche una bandiera nazista, l’aveva comprata e aveva iniziato a collezionare cimeli legati alla dittatura hitleriana. Finché un giorno non decide di rintracciare le persone che avevano arrestat Göring. Si mette in viaggio per la Germania e per quattro anni si infiltra negli ambienti neonazisti. «Sono riuscito a sopportare tutto questo soltanto perché ho escogitato una seconda identità», ha raccontato ieri alla Bild.

A un incontro di nostalgici Gould avvicina per la prima volta Frank, che si fida di lui, decide di incontrarlo decine di volte e un giorno gli scrive anche una lettera. «È lì che ho riconosciuto la firma! Era la stessa che compariva in calce al primo ordine per lo sterminio degli ebrei del 28 luglio del 1941», spiega lo storico improvvisato. «Se le persone sono inferiori dal punto di vista umano o della razza (...) vanno fucilate tutte», si legge in quell’ordine. A quel punto Gould non regge più la messa in scena e, in un ultimo incontro, elenca a Frank i nomi dei suoi familiari uccisi a seguito di quell’ordine. «Sei un mio amico o un mio nemico?» è la reazione del vecchio gerarca. «Sono un tuo nemico, tu hai ucciso la mia famiglia», gli risponde Gould. Che poi deposita una denuncia davanti alle autorità statunitensi, che stanno indagano sul caso insieme ai colleghi tedeschi. Dalla sua Gould, che ha sempre ripreso di nascosto i suoi colloqui con Frank, ha un centinaio di ore di registrazioni in cui l’ex gerarca non prende affatto le distanze dall’Olocausto, anzi.

Qui tuttavia la storia si complica. Fu davvero Bernhard Frank a firmare il primo ordine in assoluto che portò poi all’Olocausto, come sostiene Gould? Il «cacciatore di nazisti» Efraim Zuroff, direttore del Centro Simon Wiesenthal, è scettico. Non ha alcun dubbio sul fatto che Frank sia stato un fervente nazista, ha spiegato Zuroff nelle scorse settimane, ma il suo ruolo viene enfatizzato troppo. Il suo nome, ad esempio, non compare nell’ultima lista dei criminali nazisti più ricercati al mondo diffusa dal Centro Wiesenthal. Secondo alcuni storici, il suo compito si limitava a verificare che le direttive aderissero linguisticamente all’ideologia nazista. Il che, ha fatto notare Zuroff, non equivale a ordinare uno sterminio. E sulla stampa anglosassone c’è già chi non nasconde i suoi dubbi sui reali motivi del broker trasformatosi in storico: Gould ha già annunciato di voler pubblicare un libro e di voler girare un documentario sulla sua caccia al nazista che non si era mai nascosto.

La "CIVILTA'" degll'Islam


CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Canada, afghano uccide le tre figlie 'per onore'  "

Muhammad Shafia

WASHINGTON — Nella famiglia Shafia ognuno aveva un ruolo. Dettato da un codice feroce. Un codice «d'onore» (perdonateci la parola), basato sul credo del capo, Muhammad, un commerciante d'origine afghana trasferitosi in Canada. Lui era il padre-padrone. Il figlio Hamed faceva la sentinella dei costumi. La madre Tooba, la guardiana. Poi c'erano la «schiava», la prima moglie Rona, e le vittime, le figlie Zainab, 19 anni, Sahar, 17, Geeti, 13. Volevano una vita normale, con le piccole e grandi libertà rivendicate dai giovani. Frequentare ragazzi, andare alle feste, potersi scegliere le amicizie. Uno stile occidentale sgradito al patriarca, il severo Muhammad. Che, davanti a quella che riteneva una mancanza di rispetto e una sfida insolente, ha deciso una punizione estrema. Senza appello. I corpi delle tre figlie e della prima moglie sono stati trovati, il 30 giugno 2009, all'interno della loro auto. La vettura era finita in un canale a Kingston, Ontario. «Un incidente — hanno sempre sostenuto Muhammad e Hamed —. Stavano provando l'auto e sono finite in acqua». Tesi ridicola respinta dal tribunale canadese che ha condannato i due, insieme a Tooba, all'ergastolo. Per l'accusa le donne sono state uccise in un altro luogo e poi i killer hanno organizzato la messinscena che non ha ingannato la corte. Il verdetto ha subito riacceso l'attenzione sui cosiddetti «delitti d'onore» e su quanto avviene in alcune famiglie integraliste. Un'attenzione respinta da alcune associazioni musulmane per le quali si sarebbe trattato di un «incidente domestico».
Un «incidente» preceduto da anni difficili. Un sentiero di violenza e soprusi che forse poteva essere fermato. Durante il processo è emerso in modo chiaro il regno nero imposto da Muhammad. La sua poteva essere una storia di successo. Buon lavoro, agiatezza, una bella famiglia insieme alla quale lascia nel 1992 l'Afghanistan. Prima vive in Pakistan, quindi Australia e Dubai. Poi nel 2007 Muhammad, 58 anni, porta tutti in Canada. Oltre ai quattro figli ci sono le due mogli. Un caso di poligamia in sfregio alle leggi. Lui, infatti, ha deciso di sposare Tooba, 42 anni, in quanto la prima compagna, Rona, non poteva avere bambini.
Sotto il tetto di casa ci sono ordini da eseguire e tradizioni da seguire. È il padre a decidere e quando è in viaggio passa le consegne al figlio Hamed. I maschi, per mantenere la loro legge interna non vanno troppo per il sottile. Per un anno Zainab non viene mandata a scuola perché hanno scoperto che ha un fidanzatino pachistano-canadese. Lei a un certo punto scappa e cerca rifugio in un centro di assistenza. Ma in seguito torna in famiglia. Problemi anche per Sahar che ha un amico cristiano e per Geeti. Quest'ultima salta spesso le lezioni e in un paio di occasioni è rimandata a casa per problemi disciplinari. In realtà era il tentativo di attirare l'attenzione su quanto avveniva. La polizia recupererà, in seguito, il diario di Rona — la prima moglie — dove svela percosse e umiliazioni. Racconti che trovano conferme nelle intercettazioni ambientali condotte durante le indagini. In una Muhammad sputa veleno sulle figlie morte, le definisce «prostitute», si augura che Satana «defechi sulle loro tombe». Da un'altra dichiarazione si comprende chiaramente che l'uomo è ben felice di quanto avvenuto. Altro che incidente domestico. «Basta tradimenti, basta violazioni — afferma Muhammad — Anche se mi impiccheranno nulla mi sarà più caro del mio onore». Parole che dovrebbero far riflettere quanti cercano giustificazioni per degli assassini. Per nulla pentiti. Shafia e il figlio presenteranno appello.

Nazi-hunters: memoria, giustizia e riconoscimento nel caso di Mark Gould

di Daniele Salerno
Mark Gould (43 anni) e Bernhard Frank (97 anni)
La storia di Mark Gould era già abbastanza nota negli Stati Uniti (raccontata dal NYT) e nel Regno Unito (riportata dal The Guardian) sin dalla fine dello scorso anno e viene riportata da La Repubblica.
Gould è uno storico ebreo americano: ventotto membri della sua famiglia sono morti nei campi di concentramento nazisti. Nel 2006 decide di dare la caccia al presunto aguzzino: Bernhard Frank, novantasettenne e all’epoca dei fatti uno stretto collaboratore di Himmler. Fingendosi neonazista, si guadagna la fiducia di Frank durante i vari incontri dei veterani nazisti e riesce ad accumulare una serie di prove (a cominciare dalla firma) che dimostrano che Frank fu la persona che decise la morte dei suoi familiari.
Alle vicende di Gould, da verificare attentamente (in diverse parti l’articolo de La Repubblica contraddice quelli di Guardian e NYT, a cominciare dal ruolo di Frank nella catena di comando)  dedica ampio spazio il quotidiano Bild in una intervista. Il caso non è isolato: da Simon Wiesenthal in poi diversi ebrei, sopravvissuti o figli e parenti delle vittime hanno cercato i carnefici sfuggiti alla giustizia internazionale.
Il caso di Frank pone diversi problemi su come abbiano funzionato i processi di attribuzione di colpa, su come sia stata amministrata la giustizia internazionale e di transizione. E su come sia possibile che a un nazista che ha operato nel cuore stesso della Shoah sia stato concesso di vivere per decenni nell’Assia, senza nascondersi, senza subire condanne e addirittura scrivendo, cinque anni fa, un libro di memorie in cui racconta la propria vicenda.
In questi casi la costruzione la legittimazione della memoria degli eventi non è passata per un tribunale che, nella scrittura di una sentenza, fissa dei criteri di plausibilità entro cui la narrazione dell’evento può essere costruita e riconosce pubblicamente vittime e carnefici. Il cosiddetto “nazi hunter” cerca di colmare questo vuoto e tenta non tanto una vendetta (come scrive La Repubblica) quanto una rivendicazione di memoria e una richiesta di giustizia.

lunedì 30 gennaio 2012



Secondo Der Spiegel, siamo un popolo di Schettino e non c’è da meravigliarsi di ciò che è successo al largo del Giglio. Di più: siamo tutte persone da evitare, un peso per l`Europa, un ostacolo allo sviluppo della moneta unica. Loro, i tedeschi, sì che sono bravi, “con noi certe cose non accadono perché a differenza degli italiani siamo una razza”.
Come successo altre volte, fin dal 1977 con la famosa copertina “pistole auf spaghetti”, Der Spiegel si contraddistingue per un utilizzo strumentale e provocatorio, di tutti i peggiori luoghi comuni sui difetti degli italiani, attribuendo al nostro intero Paese i peggiori comportamenti tenuti da singole persone....

Come fare il napalm

Fanno i dirigisti e le chiamano liberalizzazioni

Qualunque individuo, se vuole tagliare il debito, deve rinunciare a una parte dei suoi attivi patrimoniali. Chi riduce la propria esposizione debitoria deve ritrovarsi patrimonialmente più povero. Con un’eccezione: lo Stato italiano, che sembra intenzionato a scendere nelle classifiche dei paesi più indebitati attraverso i giochi di prestigio. Il trucco consiste nella cessione delle partecipazioni del Tesoro alla Cassa depositi e prestiti (che è del Tesoro al 70 per cento). Il progetto è stato rivelato alcuni giorni fa da Massimo Mucchetti, che oggi torna sul tema rispondendo anche, indirettamente, ad alcune mie critiche.
Prima di entrare nel merito vale la pena ricordare un paio di questioni. La Cdp è la “banca” del governo, che si finanzia prevalentemente attraverso la raccolta postale e detiene quote in gran parte delle partecipazioni cosiddette “strategiche”. Negli anni, Cdp si è dilatata, fino a essere presente in un ampio spettro di settori e aziende, che vanno dalle energie rinnovabili alle infrastrutture, dalla banda larga agli ospedali, direttamente o attraverso altri veicoli quali, in particolare, il fondo guidato da Vito Gamberale, F2i, sul quale abbiamo già avuto molto da ridire fin dalla sua creazione. Proprio per la sua natura di strumento pubblico, la Banca d’Italia ha sollecitato (e ottenuto) che fossero posti dei vincoli alla possibilità per la Cassa di “farsi banca” a tutti gli effetti. Per esempio, essa non può collocare le sue obbligazioni presso i risparmiatori.
La logica del passaggio delle azioni dal Tesoro a Cdp è puramente statistica, contabile e formale. Dice Massimo:
la Cdp è considerata da Eurostat fuori dal perimetro della pubblica amministrazione… Grazie a questo status gli incassi che lo Stato realizza cedendo i suoi cespiti alla Cdp possono essere detratti dal debito pubblico.
A sostegno di questa possibilità, Mucchetti cita i casi – del tutto analoghi – delle controparti francese e tedesca della Cdp, la Caisse des Dépôts e la Kfw.
La domanda di fondo è: tale passaggio è utile? A me pare proprio di no. E non solo per le ragioni che ho già esplicitato – cioè che non si tratterebbe di una vera privatizzazione e quindi non sortirebbe il genere di effetti pro-crescita e pro-concorrenza (PDF) che ci si può attendere altrimenti. Non è un passaggio utile per due ragioni diverse.
Una riguarda la stessa Cdp. Procedere lungo questa strada significa cambiare sempre più il volto di questo soggetto, facendone la holding “non dichiarata” di tutte le partecipazioni pubbliche, ossia una sorta di ministero delle Partecipazioni statali “informale” che, per ragioni definitorie, potrebbe non rientrare nelle statistiche comunitarie. Su questo, peraltro, sussistono dei dubbi, visto che il fatto che questo comportamento sia stato consentito anni fa a Parigi e Berlino non implica automaticamente che Roma potrebbe battere la stessa strada oggi senza problemi. Il punto è che, dal punto di vista sostanziale, poco cambierebbe: sarebbe pur sempre il Tesoro a scegliere gli amministratori delegati delle società pubbliche e a influenzarne le strategie, oltre che a esserne influenzato nelle proprie politiche e in quelle degli altri ministeri, sicché, ancora una volta, non saremmo di fronte ad altro che un mero cambio di etichetta. Peraltro con qualche difficoltà interna alla Cdp stessa, immagino: siamo sicuri che il 30 per cento di fondazioni azioniste accetterebbero senza battere ciglio una manovra che potrebbe avere l’effetto di patrimonializzare di più la Cassa, rendendo però meno agevole l’erogazione di dividendi? Le fondazioni bancarie saranno anche investitori lungimiranti e attenti al lungo termine e legati al territorio e tutte le altre cose che per prassi si dicono, ma nessuno le ha mai accusate di essere troppo indifferenti all’entità delle cedole…
L’altro aspetto è ancora più fondamentale. Supponiamo che, come dice Massimo, la Cdp trovi il modo di trasferire 50 miliardi di euro al Tesoro, in cambio delle azioni da esso detenute. E allora? Questo farebbe improvvisamente “sparire” quei 50 miliardi? Oppure, utilizzandoli a riduzione del debito, lo Stato si troverebbe “più povero” di 50 miliardi? Perché la grande ambiguità di tutto il progetto sta nell’illusione ottica per cui il gioco “Tesoro + Cdp” possa essere a somma zero. Delle due l’una: o il Tesoro utilizza davvero quei 50 miliardi a riduzione del debito, nel qual caso il gioco è comunque a somma negativa; oppure “se li imbosca” per finanziare spesa corrente, nel qual caso è a somma ancor più negativa. Senza che, a fronte di ciò, possa registrarsi alcuna altra conseguenza desiderabile.
Il punto a me pare sempre lo stesso: se si privatizza, si privatizza non solo per far cassa ma anche per cambiare i connotati al mercato. In caso contrario, siamo sempre fermi al nastro di partenza. Lo Stato non è disposto a disfarsi della bombetta da imprenditore, e quel che pudicamente chiama “privatizzazione” non è altro che la sostituzione dell’interventismo sfacciato all’interventismo smart.
FONTE:http://www.chicago-blog.it/2012/01/30/fanno-i-dirigisti-e-le-chiamano-liberalizzazioni/

sabato 28 gennaio 2012

verso il 10 febbraio..:Il corpo italico straziato!

10.02.1947..
65 anni fa si firmò a Parigi il Trattato di Pace tra gli Alleati e l'Italia. Tale trattato di Pace, o meglio Diktat, sanciva la sconfitta della disastrosa politica espansionistica voluta da Mussolini con clausole onerose che vennero pagate dall'intera nazione italiana. Ma non tutti gli italiani pagarono allo stesso modo. 
Il maggior prezzo, a parte la cessione alla Francia di Briga e Tenda, venne subito dalle popolazioni italiane del confine orientale: quasi tutta la Venezia Giulia oltre al territorio di Zara, in Dalmazia, passarono alla Jugoslavia, mentre Trieste, "Territorio Libero", veniva amministrato da un governo militare ad opera degli Alleati anglo-americani. 
Il tutto venne determinato senza mettere in pratica il tanto proclamato "diritto all'autodeterminazione dei popoli", difeso a spada tratta dal Presidente americano Wilson dopo la Prima  Guerra Mondiale; principio secondo il quale vennero negate all'Italia le terre dalmate che rientravano nel famoso "Patto di Londra" innescando così il mito della vittoria mutilata e la nascita di quei movimenti reducisti da cui prese linfa il fascismo. 
Lo stesso Presidente Wilson aveva proposto, allora, che la frontiera italo-jugoslava lasciasse all'Italia il versante orientale delle Alpi e quasi tutta l'Istria (la cosidetta "Linea Wilson") riconoscendo l'italianità della maggioranza della popolazione dell'Istria centro-occidentale´. 
Nel 1947 invece furono proposte 4 linee di frontiera dalle diverse potenze vincitrici: vennero bocciate, come eccessivamente pro jugoslavia, quella sovietica che passava per Pontebba, Cividale e la foce dell'Isonzo e quelle statunitense e inglese, come troppo benevoli verso l'Italia, che pure modificavano ampiamente ed in favore della Jugoslavia la "Linea Wilson", e venne approvata invece la punitiva proposta della Francia che, pur non accogliendo tutte le pretese di Tito, cedeva alla Jugoslavia quasi tutta l'Istria (oltre Fiume e Zara) ed istituiva il Territorio Libero di Trieste (T.L.T.) le cui Zone "A" e"B" erano amministrate dagli Alleati la prima e dalla Jugoslavia la seconda. 
Solamente nel 1954 la Zona "A" (Trieste) ritornò all'Italia, mentre la Zona "B" - ancora ufficialmente territorio italiano - continuava ad essere sottoposta all'Amministrazione jugoslava. 
Nel 1975, con l'infausto Trattato di Osimo, l'Italia legalizzava anche l'annessione de facto della Zona "B", cioé l'estremitá nord-occidentale dell'Istria, con le città di Pirano, Isola e Capodistria, popolate da sempre da cittadini di etnia prevalentemente italiana, e la frontiera arrivò alla periferia di Trieste.- 
Ritornando al Trattato di Pace di Parigi, va ricordato che restarono inascoltate le richieste di Riccardo Zanella, ex-Presidente dello Stato Libero di Fiume (1920-1924) per ricostituire l'enclave italiano del Quarnero (dei 60.000 abitanti del 1945 esodarono ben 55.000). Restò inascoltato l'appello del C.L.N. di Pola che chiedeva l'istituzione di un Referendum per stabilire con una democratica consultazione il destino di tale terre di frontiera. Restarono inascoltati i pressanti appelli delle popolazioni istriane e la delegazione inviata dagli istriani, fiumani e zaratini non venne neanche ammessa al tavolo delle trattative per dire le sue buone ragioni. Tutto fu inutile. Le potenze vincitrici sancirono solamente il fatto compiuto, ovvero l'occupazione militare jugoslava di Fiume, di Zara e di gran parte dell'Istria. 
L'occupazione militare fu la base per il buon diritto jugoslavo ad annettersi tale regioni senza ascoltare la voce dei suoi abitanti. 
Tutto ciò provocò il più grande esodo mai avvenuto in quelle terre di frontiera che pure avevano visto succedersi svariate dominazioni. Dalle 300 alle 350 mila persone preferirono la via dolorosa dell'esilio. 
Tutto ciò viene detto non per rinfocolare oramai anacronistici irredentismi ma per ricordare alla smemorata Italia di oggi una pagina dolente della sua storia patria. E ricordare come solamente dei lembi estremi del territorio italiano come Briga, Tenda, l'Istria, Fiume e Zara pagarono lo scotto degli esasperati nazionalismi e delle contrapposte ideologie politiche. 

venerdì 27 gennaio 2012

La marcia dei vivi..

Domani con 1 euro...


Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 27/01/2012, a pag. 46, l'articolo di Paolo Mereghetti dal titolo "La perdita dell'innocenza di un bambino e dell'Europa".

Louis Malle, Arrivederci ragazzi, domani in edicola con il Corriere della Sera al prezzo di 1€

«Julien Quentin sono io e Arrivederci ragazzi è la mia storia». Louis Malle, il regista francese che nel 1987 vinse il Leone d'oro a Venezia con il film che sabato i lettori del «Corriere» potranno comprare al prezzo di un solo euro (oltre a quello del giornale), non ha mai nascosto che tra tutti i titoli di una lunga e fortunata carriera, questo è quello che lo tocca più da vicino. Perché la storia al centro del film (la persecuzione contro gli ebrei, che arriva anche in un collegio francese, nel 1944) lo ha visto come protagonista quando lui stesso, dodicenne, era stato messo dai genitori in un collegio nelle vicinanze di Parigi per allontanarlo dagli orrori della guerra.
«Quell'episodio mi aveva traumatizzato — ha raccontato il regista al critico Philip French nel volume Il mio cinema (in italiano si può leggere tradotto da Le Mani) — ed ebbe un'enorme influenza sulla mia vita». L'episodio si riferisce alla retata che la Gestapo face nel collegio cattolico, retto da frati carmelitani, dove studiava il piccolo Malle con il fratello maggiore, per arrestare tre studenti ebrei che vi erano ospitati sotto falso nome. Una scoperta, fatta in seguito a una delazione, che costò la libertà (e più tardi la vita) anche al rettore, arrestato e deportato insieme ai tre ragazzi.
«Quello che è successo nel gennaio 1944 ha avuto un'importanza enorme nella mia decisione di diventare regista — ha spiegato Malle —. È difficile da spiegare, ma fu un trauma tale che mi ci vollero molti anni per superarlo, per cercare di capire, quando, ovviamente, ero così giovane da non poter capire. Quello che era accaduto era così terribile e talmente in contraddizione con i valori che ci venivano insegnati, che giunsi alla conclusione che ci fosse qualcosa di sbagliato nel mondo, e cominciai a ribellarmi. Credo che questo avvenimento suscitò in me un profondo interesse per ciò che accedeva al di fuori dell'ambiente estremamente privilegiato in cui ero cresciuto».
Un «trauma» — è giusto ricordarlo — che è alla base della sceneggiatura e a cui il film fa partecipare anche i suoi spettatori, spingendoli a riflettere sul significato di certe azioni, sulle conseguenze di certe affermazioni e scelte. Esattamente come fa con il piccolo Julien Quentin, il cui mondo adolescenziale entra definitivamente in crisi quando deve fare i conti con la realtà e la sua violenza.
Avesse voluto fare un film più platealmente emotivo (e ricattatorio), Malle avrebbe potuto scegliere il giovane Jean Bonnet come protagonista: era lui uno dei tre ragazzi ebrei ospitati in collegio, era lui che non vedeva il padre da anni e la madre da mesi, era lui l'«oggetto misterioso» che arriva in collegio a gennaio a rompere il tran tran scolastico e a scatenare la curiosità non sempre innocente degli altri ragazzi. Aveva tutti gli elementi per diventare l'agnello sacrificale. E invece Malle ribalta la posizione, si mette in gioco direttamente (nella scena finale, è il regista in prima persona che dà voce ai ricordi di Julien che svelano la fine fatta dai ragazzi e dal rettore: si può ascoltare nel dvd scegliendo la lingua originale con sottotitoli in italiano. Ne vale la pena) e racconta quell'episodio dal punto di vista di chi avrebbe potuto, «pilatescamente», lavarsene le mani.
Il film diventa così un viaggio di iniziazione, non tanto verso l'età adulta quanto verso la presa di coscienza che il male è di questo mondo e che ci tocca tutti. Non possiamo chiamarci fuori. Per questo all'inizio il film sembra renitente nell'affrontare il tema centrale, quello dell'odio antisemita. All'inizio del film, il regista è interessato soprattutto a farci conoscere Julien: il suo controverso rapporto con la madre, poi l'amicizia con Joseph, lo sguattero di cucina, e i loro piccoli commerci di «mercato nero», e ancora l'amore per la lettura, l'impegno nello studio ma anche le gelosie e le inimicizie tra compagni. L'arrivo di Jean Bonnet cambia l'equilibrio delle cose: il nuovo studente si dimostra abile e preparato, anche lui condivide la passione per la lettura (la comune scoperta del fascino delle Mille e una notte, letto di notte al lume di una pila, è uno dei momenti alti del film), ha le stesse paure e apprensioni (come si rivela nella scena della caccia al tesoro tra i boschi). Ma soprattutto perché certe reticenze e certi comportamenti accendono negli altri studenti, e specialmente in Julien, il sospetto che si tratti di un ebreo.
Da questo momento la curiosità adolescenziale prende il sopravvento. Il legame tra i due ragazzi diventa ogni giorno più stretto, come nelle bellissime scene intorno al pianoforte, dove Jean insegna all'amico a suonare il boogie woogie, oppure nelle risate condivise di fronte alle disavventure di Charlot emigrante, proiettato in collegio. Un legame che accende in Julien mille domande su cosa voglia dire «essere ebrei» e che Malle usa per rivelarci i diversi atteggiamenti che la società francese aveva in quegli anni. Di disprezzo, di razzismo dichiarato, ma anche di paternalistica supponenza. O di condivisione e complice aiuto.
Alla fine un piccolo atto di rigidità morale (l'allontanamento dello sguattero perché accusato di furto) fa precipitare la situazione. Lui si vendica facendo la spia, i comportamenti delle persone del collegio non sono tutti limpidissimi, persino Julien si sente «colpevole» per uno sguardo di troppo, ma è soprattutto l'addio finale, quello che spiega il titolo del film («Arrivederci, ragazzi» dice il rettore ai suoi ex alunni mentre i soldati lo portano via), a far capire allo spettatore la tragedia che si sta compiendo. Nell'animo di Julien e nel cuore dell'Europa.

mercoledì 25 gennaio 2012

Irena Sendler, una vita in un barattolo

Ho scoperto la storia di Irena Sendler grazie alla segnalazione del mio amico Roberto. E’ una storia poco conosciuta, una pagina di vero eroismo resuscitata dall’oblìo, che merita di essere divulgata. Nata in Polonia nel 1910, e’ morta nel maggio del 2008 all’età di 98 anni.
Irena Sendler era un’assistente sociale a Varsavia quando scoppiò la seconda guerra mondiale. Ancora prima della costruzione del Ghetto di Varsavia (1940) iniziò a fornire documenti falsi ed a reclutare famiglie ed istituti per ospitare in incognito bambini ebrei: a lei erano chiare già da allora le conseguenze delle politiche razziali della Germania di Hitler. Possedeva un lasciapassare per entrare nel Ghetto di Varsavia, in quanto operatrice ufficiale del Dipartimento contro le malattie contagiose. La sua libertà di muoversi dentro le mura del Ghetto le permetteva di convincere i genitori dei bambini a farli uscire dalla prigionia del Ghetto e a farli vivere presso istituti religiosi e famiglie amiche con una nuova identità. Il concetto era di evitare perlomeno ai bambini gli stenti del Ghetto e di riunirli con i loro genitori nel futuro.
L’organizzazione clandestina ZEGOTA aiutò Irena Sendler nell’esecuzione di questo piano. C’era la necessità di reclutare fidate famiglie per i bambini, si dovevano procurare documenti falsi e soprattutto, si doveva organizzare l’evasione dei bambini dal Ghetto. Diversi metodi furono escogitati e messi in opera: alcuni bambini venivano nascosti dentro le ambulanze che uscivano dal Ghetto insieme a Irena Sendler, lei stessa li nascondeva in borsoni e valigie (non veniva perquisita a fondo in quanto si sapeva che lavorava a contatto con malattie contagiose), si utilizzavano cunicoli segreti e le possibilità che offriva il grande Palazzo di Giustizia, che era situato come un’enclave nel mezzo del Ghetto di Varsavia. I circa 1000 bambini fatti così scappare si sono uniti ai circa 1500 a cui fu cambiata l’identità prima della costruzione del Ghetto. Le nuove identità erano necessarie per celare i nomi ebrei dei bambini e anche per evitare ripercussioni sui loro parenti qualora fossero stati scoperti. Irena Sendler scriveva, aggiornava e manteneva le liste dei nomi veri e di quelli nuovi. Sapendo di dover proteggere queste liste dalla scoperta da parte dei nazisti sia per poterle poi utilizzare per la riunione dei bambini a guerra conclusa, le pose dentro a dei vasetti vuoti di marmellata e le sotterrò sotto un albero di mele in un giardino di conoscenti a Varsavia. La vita futura di questi bambini era legata a queste liste nascoste nei vasetti.
Il 20 ottobre 1943 Irena Sendler venne arrestata. La portata dei suoi «crimini» venne scoperta soltanto in parte dai suoi aguzzini. Lei non nominò i suoi collaboratori e non rivelò mai il nascondiglio delle liste dei bambini nonostante la sua abitazione fosse stata perquisita a fondo. Neanche la tortura le fece cambiare opinione: le vennero fratturate le gambe. Irena Sendler rimase per il resto della sua vita claudicante e bisognosa dell’aiuto del bastone per camminare. Le liste dei bambini nascoste nei vasetti interrati rimasero sicure. Infine venne condannata a morte. L’organizzazione ZEGOTA – a sua insaputa – corruppe con soldi l’ufficiale che doveva ucciderla e che la aiutò a fuggire. Lei stessa visse fino alla fine della guerra in clandestinità e lesse la notizia della sua morte nei volantini affissi a Varsavia. La vita della maggior parte dei genitori finì a Treblinka. Dei 450.000 ebrei rinchiusi nel Ghetto soltanto circa 1.000 sopravvissero all’Olocausto. I pochi genitori rimasti furono riuniti con i loro bambini dopo la guerra utilizzando le liste nascoste nei vasetti di marmellata.
La sua lista, due volte più lunga di quella di Oskar Schindler, è custodita allo Yad Vaschem, il memoriale dell’Olocausto in Israele, che nel 1965 l’aveva insignita della medaglia dei giusti, anche se poi ha dovuto aspettare 18 anni per andare a Gerusalemme, a piantare il suo albero.
C’è un sito che raccoglie il suo messaggio e la sua storia.
Nel 2009 venne realizzato un film per la televisione, di coproduzione Polacca e Americana, The Courageous Heart of Irena Sendler, in lingua inglese.
L’anno scorso Irena è stata proposta per il Premio Nobel della Pace.
Non è stata nominata.

venerdì 20 gennaio 2012

E se io cito zamparini vuol dire che lo urlano anche le pietre...

Forconi, Zamparini: "I mafiosi sono quelli che uccidono l'Italia che produce"

Forconi, Zamparini:
E’ netta l’opinione del presidente del Palermo Maurizio Zamparini, che è vicino al Movimento Forza d’urto anche se si dice contrario ai blocchi e alla violenza.

Ho incontrato alcuni rappresentanti del movimento dei forconi – aggiunge – perche’ loro probabilmente aderiranno al ‘movimento della gente’ che abbiamo fondato a Roma l’anno scorso. Ho parlato con gli agricoltori e gli autotrasportatori, sono disperati perche’ questo Stato sta uccidendo quelli che lavorano e producono la ricchezza specialmente tra le partite iva”.
Secondo il massimo dirigente della squadra rosanero i siciliani che protestano “si sentono distrutti dallo Stato in un momento di crisi, in cui manca il lavoro”. “Per esempio gli autotrasportatori – ha continuato – hanno costi esorbitanti sui carburanti, sulle autostrade e in piu’ hanno l’Agenzia delle entrate che gli fa il reddito presunto e le cartelle esattoriali. Succede anche ai contadini, ma diciamo che e’ tutta l’Italia conciata in questo modo”.

Fonte: Blogsicilia

mercoledì 18 gennaio 2012

Israele,spettacolare esercitazione para'

Migliaia di paracadutisti hanno simulato scenari estremi

 (ANSA) - TEL AVIV, 18 GEN - La intera Brigata dei paracadutisti ha condotto la scorsa notte, in una localita' imprecisata di Israele, la piu' grande esercitazione negli ultimi 15 anni, ed una delle maggiori in tutta la sua storia. Lo ha reso noto il portavoce militare. Nella simulazione, aggiunge il sito di questioni militari 'IsraelDefense', sono stati impiegati un migliaio di paracadutisti che hanno simulato ''scenari estremi''.

DECAPITIAMO la CASTA!


Condivido appieno la lotta.
La modalità dovrebbe invece prevedere assalto a presidi di  potere di importanza strategica per la GUERRA! e il coinvolgimento di realtà nei maggiori centri siciliani con comitati di lotta ad hoc.
La rete non solo on line è flessibile , veloce, difficile da battere.(LANDER STURM)

venerdì 13 gennaio 2012

Civiltà di ROMA CAPITALE

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 13/01/2012, a pag. 18, l'articolo dal titolo " Sfregio a Roma. Divelte le pietre poste in memoria della Shoah ".

I sampietrini in ottone

Erano solo delle pietre, ma ricordavano le vittime della Sho­ah. Sono durate appena due gior­ni. Erano state messe il 10 genna­io, per ricordare la tragedia degli ebrei a chi passeggiava nei luoghi della Roma dei rastrellamenti na­zisti. Ma ieri mattina quelle tre pie­tre di ottone dedicate alle sorelle Spizzichino proprio nel ghetto di Roma sono state divelte e sostitui­te con normali sampietrini. Un ge­sto compiuto da vandali ignoti, per sfregiare la memoria della Sho­ah e anche un’opera d’arte: le «pie­tre d’inciampo» infatti sono state volute dall’artista tedesco Gunter Demnig in ricordo delle vittime dell’Olocausto.
A denunciare l’accaduto è Ada­chiara Zevi, curatrice del progetto «Pietre d’inciampo a Roma».Rea­lizzate in ottone per un valore di 100 euro, le pietre sono state collo­cate a terra tre giorni fa al ghetto, per ricordare le sorelle Spizzichi­no, e a Monti per non dimenticare Don Pappagallo, il prete reso cele­bre da Roma città aperta. «È un fur­to oltraggioso- afferma la Zevi- si­curamente premeditato perché chi lo ha compiuto di certo aveva con sé i sampietrini normali con cui sostituire quelli in ottone. È un episodio incredibile».
«Si tratta, come è evidente, del­l’ennesimo vergognoso tentativo di cancellare il ricordo delle affli­zioni subite da coloro che furono perseguitati negli anni del nazifa­scismo - dice il presidente del­l’Unione delle Comunità ebrai­che italiane Renzo Gattegna- Que­sta notizia è fonte di intensa soffe­renza e preoccupazione per tutti gli ebrei italiani e per tutti quei cit­ta­dini educati al rispetto della me­moria
e delle identità». Condan­na bipartisan per il gesto.

IRAN LIBERO!

Sto con i Marines

La guerra non ha nulla di Umano e nessuna convenzione Legale o Umanitaria può porvi rimedio. Ecludo ogni forma di Buonismo o di civilizzazione della Guerra. Contestando che la "vera Arte della Guerra" sia di condurre il conflitto in modo "ingegnoso" evitando troppo spargimento di sangue. La "SALITA AGLI ESTREMI" è intrinseca nella GUERRA. La Moderazione della GUERRA è incorrere in un ASSURDITA'. Chi si serve di una violenza senza riguardi senza risparmio di sangue acquista necessariamente una superiorità se il nemico non fa altrettanto.
- VON CLAUSEWITZ

giovedì 12 gennaio 2012

Vicini di casa da cui guardarsi...


Riportiamo da LABUSSOLAQUOTIDIANA.IT l'articolo di Valentina Colombo dal titolo " Hamas aizza l'antisemitismo tunisino ".

Valentina Colombo, Ismail Haniyeh, capo di Hamas

“Uccidere gli ebrei è un dovere”. “Cacciare gli ebrei è un dovere”. Questi gli slogan principali che hanno accolto l’arrivo di Ismail Haniyeh, primo ministro dell'Autorità Nazionale Palestinese dopo le elezioni vinte dal suo movimento Hamas il 25 gennaio 2006, all’aeroporto di Cartagine lo scorso 5 gennaio. Tunisi è l’ennesima tappa di un tour che lo ha già portato in Egitto, Sudan e Turchia. La visita di Haniyeh non stupisce, considerato che Hamas è la filiale palestinese del movimento dei Fratelli musulmani.
Stupisce invece il tono delle frasi pronunciate, in un paese in cui la presenza ebraica è attestata sin dal II secolo dopo Cristo. In un paese che vanta anche una persona come Khaled Abd al-Wahhab che ha nascosto, e protetto dai nazisti, per quattro mesi nel 1943 due famiglie ebraiche nella propria fattoria a Mahdia. Chiunque abbia visto il film di Ferid Boughedir Un’estate alla Goulette ha appreso che nel 1967, alla Goulette, il quartiere di Tunisi ce si affaccia sul porto della città, convivevano cristiani, ebrei e musulmani. Stupisce quindi il riferimento alla cacciata e all’uccisione degli ebrei da parte dei manifestanti che dimostra una perfetta scollatura dalla memoria storica a favore della ideologia che vuole confondere ebrei e Israele. Gilles-Jacob Lellouche, membro della comunità ebraica tunisina e fondatore dell’associazione culturale “Dar Edhekra” ha giustamente sottolineato che quel che più lo fa soffrire è “il silenzio assordante della classe pubblica riguardo questa deriva razzista”.
Di fatto Rached al-Ghannouchi, leader del partito El Nahdha, ovvero il movimento politico tunisino legato ai Fratelli musulmani oggi al potere, ha emesso un comunicato in cui dichiara che “i cittadini ebrei vivono in pace nella loro terra Tunisia da molti secoli e che gli ebrei in Tunisia sono cittadini a tutti gli effetti, con diritti e doveri come tutti gli altri cittadini. […] il movimento El Nahdha disapprova gli slogan che non emanano dallo spirito dell’islam né dai suoi insegnamenti, ritiene che questi slogan appartengano a una fronda marginale che si è unita al movimento El Nahdha e si è mescolata ai propri attivisti”.
Sarebbe rassicurante potere credere a queste parole. Ma purtroppo ci sono dei dati oggettivi che fanno sorgere enormi dubbi sulla sincerità di queste dichiarazioni. Ebbene Haniyeh è leader di Hamas, ufficialmente legato ai Fratelli musulmani, al-Ghannouchi è leader di El-Nahdha, movimento anch’esso ufficialmente legato ai Fratelli musulmani. Lo Statuto di Hamas all’articolo 6 recita: “Il Movimento di Resistenza Islamico è un movimento palestinese unico. Offre la sua lealtà ad Allah, deriva dall’islam il suo stile di vita, e si sforza di innalzare la bandiera di Allah su ogni metro quadrato della terra di Palestina. All’ombra dell’islam, è possibile per i seguaci di tutte le religioni coesistere nella sicurezza: sicurezza per le loro vite, le loro proprietà e i loro diritti. È quando l’islam è assente che nasce il disordine, che l’oppressione e la distruzione si scatenano, e che infuriano guerre e battaglie” e all’articolo 7 ribadisce: “Il Movimento di Resistenza Islamico è uno degli anelli della catena del jihad nella sua lotta contro l’invasione sionista. È legato all’anello rappresentata dal martire ‘Izz-Id-Din al-Qassam e dai suoi fratelli nel combattimento, i Fratelli Musulmani del 1936 [che continuarono la lotta dopo che al-Qassam fu ucciso nel 1935]. E la catena continua per collegarsi a un altro anello, il jihad degli sforzi dei Fratelli Musulmani nella guerra del 1948, nonché le operazioni di jihad dei Fratelli Musulmani nel 1968 e oltre.
Benché gli anelli siano distanti l’uno dall’altro, e molti ostacoli siano stati posti di fronte ai combattenti da coloro che si muovono agli ordini del sionismo così da rendere talora impossibile il perseguimento del jihad, il Movimento di Resistenza Islamico ha sempre cercato di corrispondere alle promesse di Allah, senza chiedersi quanto tempo ci sarebbe voluto. Il Profeta – le preghiere e la pace di Allah siano con Lui – dichiarò: “L’Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l’albero diranno: O musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me – vieni e uccidilo; ma l’albero di Gharqad non lo dirà, perché è l’albero degli ebrei.” In questa direzione si muovono le dichiarazioni di Haniyeh durante la visita a Tunisi. Il leader di Hamas ha non solo ribadito che Hamas non riconoscerà Israele, che “Israele non ha più alleati in Egitto e in Tunisia”, ma ha anche ricordato che si tratta di una questione “religiosa”.
Ne consegue che o Haniyeh/Hamas mente o Ghannouchi/El Nahdha mente. Il loro denominatore comune rimane comunque il movimento dei Fratelli musulmani. Nel 2007 l’intellettuale yemenita Elham Manea scriveva: “La notizia, che avevo letto in una e-mail, era che il sito Awladuna (I nostri figli) per bambini del movimento dei Fratelli musulmani egiziani aveva dedicato alcune pagine per instillare l’odio nei confronti degli ebrei nei cuori dei ragazzi. Non ci credevo perché i Fratelli musulmani continuano a ripetere che non odiano nessuno e che secondo la loro interpretazione la religione islamica è una religione di pace, che non hanno alcun problema né con gli ebrei né con la religione ebraica, bensì con lo stato di Israele e le sue azioni repressive contro il popolo palestinese”. Proprio come nel comunicato di El Nahdha. Ma la Manea proseguiva con un mea culpa ben preciso: “Tuttavia la questione non si conclude sulla soglia del pensiero religioso politico, ma sfocia nella nostra convinzione di essere in perenne lotta con gli ebrei. Diventa un odio velato che risiede nel nostro inconscio. Che esiste. Che sarà difficile negare, che sarà difficile negare perché in molte delle nostre società la parola “ebreo” è un’ingiuria”.
Quindi ha ragione, ed è onesto, Haniyeh quando afferma che “sostenere la Palestina è un obbligo religioso e nazionale”, quindi che si tratta di una questione politica e religiosa al contempo, mentre mente, o tace la verità, al-Ghannouchi. D’altronde se non condividesse le idee del leader di Hamas perché avrebbe invitato lui e non Abu Mazen? Se così non fosse perché Abu Mazen avrebbe rifiutato l’invito tardivo del governo tunisino a partecipare ai festeggiamenti della rivoluzione? Ancora una volta i fatti contano molto più delle parole, pronunciate o meno, e farebbero bene i governi occidentali ad aprire gli occhi prima che sia troppo tardi.

http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=90

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Storia di un bimbo siriano


Badr ha perso il fratello, la scorsa settimana. Se l’è ritrovato in una borsa, di fronte a casa sua. Quello che rimaneva di lui. Il suo corpo era stato fatto a pezzetti. Lo ha riconosciuto grazie al braccialetto. C’era scritto “Best”. L’altro braccialetto, con scritto “Brother”, è al suo polso. Gliel’ha regalato il giorno del suo ottavo compleanno.
“Perché?”, si chiede Badr. “Perché hanno ucciso il mio fratellone? Perché voleva la libertà?”.
Poi è toccato al padre. Due giorni dopo. Militari hanno bussato alla porta della sua abitazione. Badr si nascondeva, aveva paura. Era buio, non vedeva nulla. Riusciva solo a sentire i soldati che gli stavano distruggendo casa. Sono andati dal padre e gli hanno urlato: “Vuoi la libertà?”. E lui, fiero, ha risposto: “Sì, voglio la libertà”. Allora gli hanno sparato. Badr li sentiva ridere. “Non riuscivo a respirare”, scrive . “Non ci meritiamo tutti la libertà?”.
La Siria è meno lontana di quanto non si voglia credere.
Ciao Badr.
 FONTE:http://www.river-blog.com/2012/01/08/siria-storia-di-un-bambino/

giovedì 5 gennaio 2012

Eh no caro Alemanno, Le belve non vanno Fermate,
VANNO ABBATTUTE
             - Guerraclix

mercoledì 4 gennaio 2012

Obama dovrebbe esserne fiero :Yes we can... fare danni!


Riportiamo dall'OPINIONE di oggi, 04/01/2012, a pag. 6, l'articolo di Stefano Magni dal titolo " Egitto e Israele pace a rischio ".

Stefano Magni, Anwar Sadat, Menachem Begin

Terza e ultima tornata elettorale per il Parlamento dell’Egitto. I Fratelli Musulmani sono ancora i grandi favoriti, con il loro partito Libertà e Giustizia. E ne approfittano per buttare la maschera: vogliono gettare alle ortiche il trattato di pace con Israele.
Quasi l’unico (assieme a quello con la Giordania) accordo permanente che ha impedito lo scoppio di nuove guerre in Medio Oriente. Lo ha chiarito il leader della Confraternita, Rashad Bayoumy, in un’intervista al quotidiano pan-arabo al-Hayat. “Riconoscere Israele è una precondizione per governare? – chiede Bayoumy ponendosi una domanda retorica - Questo non è possibile, le circostanze non hanno importanza. Non riconosciamo Israele per niente. E’ un nemico criminale occupante”.
Bayoumy, numero due dei Fratelli Musulmani, ha quindi sottolineato che nessun esponente della Confraternita si siederà mai allo stesso tavolo con un israeliano. “Non permetterò a me stesso di sedermi con un criminale. Non faremo mai accordi con loro”. Chiaro no? Quanto al trattato di pace, i Fratelli Musulmani non hanno intenzione di abolirlo subito dopo la loro (ormai pressoché inevitabile) vittoria.
Hanno voglia di “lasciarlo abolire” dal popolo. Con un referendum popolare, che darà sicuramente la vittoria alla causa della sua abolizione. Sarebbe un risultato scontato, considerando che, nelle prime due tornate elettorali il partito Libertà e Giustizia ha ottenuto circa il 40% dei voti, che il secondo partito è l’ultra-fondamentalista Al Nour (che non fa mistero di voler stracciare il trattato) e che persino fra le minoranze laiche la causa anti-sionista è prevalente. Lo dimostra l’intervista al leader del Wafd, partito “liberale”, densa di concetti decisamente anti-sionisti e anche anti-semiti, fra cui le teorie cospirative, la negazione dell’Olocausto e una fantasiosa idea archeologica sul fatto che il Tempio di Gerusalemme non sia mai esistito.
Un referendum sul trattato di pace segnerebbe, una volta per tutte, la fine delle relazioni di pace armata fra l’Egitto (la più grande nazione araba) e Israele (il più potente esercito del Medio Oriente), spianando la strada a scenari che possiamo ben immaginare. Gli accordi di Camp David del 1978, mediati dall’ex presidente Usa Jimmy Carter, diverrebbero solo un pallido ricordo del passato. L’amministrazione democratica di Barack Obama, discendente diretta di quella di Carter, potrebbe solo mangiarsi le mani. Considerando soprattutto che i Democratici americani hanno apertamente dichiarato il loro sostegno ai Fratelli Musulmani e hanno addirittura contribuito alla loro vittoria con preziose consulenze politiche.
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Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
Novità sulla primavera araba
       
l'emiro del Qatar, a destra, Mahdi al-Harati

Cari amici,
è proprio vero che una storia vale più di mille discorsi teorici. Sentite questa. E' la storia che il numero due dei ribelli libici Mahdi al-Harati ha raccontato a un giornalista spagnolo della testata ABC: "Sono stato ferito sulla Mavi Marmara e ho passato nove giorni in una prigione israeliana." (http://www.nationalreview.com/corner/286729/libyan-rebel-commander-i-was-imavi-marmarai-john-rosenthal) Che strana combinazione, eh? Harati è il vice dell'attuale capo del  concilio militare di Tripoli, Abdul-Hakim Belhadj, di cui si sono individuati importanti legami con Al Queida, e documentati rapporti telefonici con gli attentatori di Madrid nel 2004.

Tre anni fa, ufficialmente in esilio in Irlanda, Harati faceva parte dei mercenari assoldati dall'organizzazione pacifista IHH, a sua volta appoggiata e finanziata dal governo Erdogan e iscritta da diversi governi europei nella lista delle organizzazioni terroriste già da prima dell'episodio della flottiglia, per andare a scontrarsi con i soldati israeliani o aprire la strada al libero traffico d'armi per Hamas. Non era uno spettatore passivo, un giornalista o un idealista in gita; se fu ferito faceva parte certamente di quei duecento organizzati militarmente che si armarono di spranghe e coltelli e condussero una battaglia con i marinai israeliani.

E sapete dov'è ora il bravo Mahdi al-Harati ? In Siria, "ad aiutare i fratelli rivoluzionari siriani" dove si parla con insistenza della presenza di Al Qaeda, dove agiscono anche i turchi e da dove Hamas sta cercando di andarsene. Libia, Siria, Turchia, Hamas, Al Qaeda, che bel nodo! Una vera e propria brigata internazionale islamica, che dice molte cose sulla verità della "primavera araba".

E a proposito dello spostamento di Hamas, sapete  dove si dice che sarà trasferito il quartier generale del gruppo terrorista, attualmente in Siria? In Giordania, che pure qualche anno fa ha tolto la cittadinanza al suo leader Meshaal. La ragione è che il Qatar avrebbe offerto milioni di dollari in cash e gas naturale alla Giordania per accettare. Naturalmente la Giordania ha smentito che le sia stata fatta l'offerta, ma non la sua disponibilità ad accettarla. (http://www.nationalreview.com/corner/286729/libyan-rebel-commander-i-was-imavi-marmarai-john-rosenthal). L'emiro del Qatar, per chi non lo sapesse, è anche il proprietario e ospita la sede di Al Jazeera, l'emittente che assai più di Twitter e Facebook è stato il vero mezzo di comunicazione della "primavera araba". Il Qatar ha partecipato militarmente alla rivolta libica (http://www.guardian.co.uk/world/2011/oct/26/qatar-troops-libya-rebels-support) e ha cercato poi di "comprarsela" con generosi finanziamenti (http://www.guardian.co.uk/world/2011/oct/04/qatar-interfering-libya). Ed è anche il primo stato in cui i talibani afgani hanno aperto (proprio ieri) una loro "ambasciata" (http://www.nationalreview.com/corner/286729/libyan-rebel-commander-i-was-imavi-marmarai-john-rosenthal). Un altro nodo interessante, non vi pare? Dice qualcosa sulla "primavera araba" che i più sofisticati teorici del "desiderio di libertà dei popoli" non raccontano. A pensar male si fa peccato, come diceva Andreotti, ma spesso ci si acchiappa...
Ugo Volli

GUERRA! Channel