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martedì 31 gennaio 2012

Nazi-hunters: memoria, giustizia e riconoscimento nel caso di Mark Gould

di Daniele Salerno
Mark Gould (43 anni) e Bernhard Frank (97 anni)
La storia di Mark Gould era già abbastanza nota negli Stati Uniti (raccontata dal NYT) e nel Regno Unito (riportata dal The Guardian) sin dalla fine dello scorso anno e viene riportata da La Repubblica.
Gould è uno storico ebreo americano: ventotto membri della sua famiglia sono morti nei campi di concentramento nazisti. Nel 2006 decide di dare la caccia al presunto aguzzino: Bernhard Frank, novantasettenne e all’epoca dei fatti uno stretto collaboratore di Himmler. Fingendosi neonazista, si guadagna la fiducia di Frank durante i vari incontri dei veterani nazisti e riesce ad accumulare una serie di prove (a cominciare dalla firma) che dimostrano che Frank fu la persona che decise la morte dei suoi familiari.
Alle vicende di Gould, da verificare attentamente (in diverse parti l’articolo de La Repubblica contraddice quelli di Guardian e NYT, a cominciare dal ruolo di Frank nella catena di comando)  dedica ampio spazio il quotidiano Bild in una intervista. Il caso non è isolato: da Simon Wiesenthal in poi diversi ebrei, sopravvissuti o figli e parenti delle vittime hanno cercato i carnefici sfuggiti alla giustizia internazionale.
Il caso di Frank pone diversi problemi su come abbiano funzionato i processi di attribuzione di colpa, su come sia stata amministrata la giustizia internazionale e di transizione. E su come sia possibile che a un nazista che ha operato nel cuore stesso della Shoah sia stato concesso di vivere per decenni nell’Assia, senza nascondersi, senza subire condanne e addirittura scrivendo, cinque anni fa, un libro di memorie in cui racconta la propria vicenda.
In questi casi la costruzione la legittimazione della memoria degli eventi non è passata per un tribunale che, nella scrittura di una sentenza, fissa dei criteri di plausibilità entro cui la narrazione dell’evento può essere costruita e riconosce pubblicamente vittime e carnefici. Il cosiddetto “nazi hunter” cerca di colmare questo vuoto e tenta non tanto una vendetta (come scrive La Repubblica) quanto una rivendicazione di memoria e una richiesta di giustizia.

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