guerra all'italico declino

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venerdì 6 dicembre 2013

Meglio lo spazzino spagnolo del tranviere genovese

Perché conviene lo spazzino spagnolo invece del tranviere genovese
Dove termina la somiglianza tra il caso iberico e quello italiano
Madrid non è Genova. Entrambe le città sono state messe in ginocchio dal blocco di un importante servizio pubblico. Ma la dinamica è stata molto diversa, e ha condotto a esiti opposti. Le somiglianze: i netturbini spagnoli hanno scioperato per 11 giorni ininterrotti, contro un piano di licenziamenti che ne avrebbe coinvolto circa 1.100 su 7.000, tagliando lo stipendio agli altri. La rivolta si è conclusa con un accordo tra i sindacati e l'amministrazione comunale. Come nel capoluogo ligure con gli autisti del trasporto pubblico locale, a prima vista.

Le somiglianze, però, finiscono qui. Intanto, è differente il contesto: il servizio di raccolta dei rifiuti, a Madrid, è affidato a una pluralità di imprese private, i trasporti genovesi sono un monopolio pubblico. Inoltre, gli operatori madrileni avevano risposto ai tagli ai trasferimenti non solo riducendo il servizio ma anche con una sorta di spending review interna, in virtù della quale l'organico era stato tagliato di 350 unità lo scorso agosto. Poi, la vertenza ha seguito strade del tutto dissimili: il primo cittadino della Lanterna, Marco Doria, ha ceduto alle prepotenze dei sindacati. La sua controparte spagnola, Ana Botella, ha retto e, seppur tardivamente, ha mandato dei dipendenti comunali a pulire le strade inondate dai rifiuti. Ha fatto capire che avrebbe disinnescato il ricatto, insomma. Da ultimo, l'accordo spagnolo impone rinunce a entrambi i fronti: i licenziamenti non ci saranno, ma i salari sono congelati o ridotti fino al 2017. Alcune centinaia di lavoratori dovranno restare a casa "provvisoriamente" e senza stipendio, pur non perdendo formalmente il posto.

Ancora più significativa è la differenza nell'organizzazione dei servizi pubblici locali. In Spagna, da diversi anni vengono prodotti da operatori privati, che nel caso dei rifiuti hanno una quota prossima all'80 per cento sia nella raccolta sia nello smaltimento. I comuni che hanno scommesso sulla raccolta differenziata si sono trovati costretti (e poi soddisfatti) a rivolgersi ai privati. Secondo la Reason Foundation, le privatizzazioni hanno permesso risparmi nell'ordine del 20-40 per cento. Questo è vero soprattutto per i processi di esternalizzazione più recenti, i quali si sono svolti in modo più attento agli aspetti competitivi delle gare e con forme di affidamento più trasparenti.

Dai fatti di Genova, invece, viene tutt'altra lezione. I politici italiani si sono sdraiati ai piedi dei sindacati. Questi ultimi non chiedevano la revisione di punti specifici in un concreto piano di ristrutturazione, ma pretendevano garanzie contro la semplice e teorica possibilità di azionisti privati in posizione di minoranza. Lo sciopero si è chiuso per ko: ci saranno più finanziamenti da comune e regione, e nessun sacrificio da parte dei lavoratori. L'amministrazione locale ha assistito impotente all'invasione del Consiglio comunale e il sindaco stesso è stato spintonato; il governo non ha alzato la sua voce neppure di fronte agli evidenti problemi di ordine pubblico e interruzione di pubblico servizio. L'azienda ha rinunciato a qualunque sanzione interna. Il messaggio che ne emerge descrive due paesi incommensurabili: uno con un futuro, l'altro senza speranze. In Spagna, i sindacati sono forti ma non spadroneggiano: per avere x, devono rinunciare a y. In Italia, il contrario: per questo il significato politico dei fatti di Genova trascende l'oggetto delle trattative. Non è un caso che ora stiano per aprire le ostilità pure i lavoratori delle municipalizzate genovesi Amiu e Aster (rifiuti e manutenzione stradale, rispettivamente), della romana Atac (trasporti), e chissà quanti altri. Lo stesso (blando) piano di privatizzazioni del governo dovrà fare i conti con le ovvie resistenze sindacali (primo campanello d'allarme: Fincantieri). Il sonno della politica genera mostri.

Da Il Foglio, 28 novembre 2013
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