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mercoledì 15 febbraio 2012

Pronti..prontissimi...al VIA..

14.02.2012 'Raggiungere i nemici ovunque siano'. Israele pronto ad attaccare il nucleare iraniano ?
intervista di Giulio Meotti a Ephraim Sneh, cronaca di Andrea Morigi

Testata:Il Foglio - Libero
Autore: Giulio Meotti - Andrea Morigi
Titolo: «Alle manovre anti-Iran ci siamo anche noi»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 14/02/2012, in prima pagina, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo "  La cura di Sneh  ". Da LIBERO, a pag. 17, l'articolo di Andrea Morigi dal titolo " Alle manovre anti-Iran ci siamo anche noi ".
Ecco i due pezzi:

Il FOGLIO - Giulio Meotti : " La cura di Sneh "

Giulio Meotti, Ephraim Sneh

A Entebbe il generale Ephraim Sneh era noto a tutti come “il dottore”. Il 4 luglio 1976 tra le sue braccia morì Yoni Netanyahu, fratello dell’attuale primo ministro d’Israele e a capo del celebre blitz ugandese che liberò gli ostaggi. Con Sneh nella Sayeret Matkal, le teste di cuoio israeliane, c’era la “cabala del commando”, ovvero Benjamin Netanyahu, primo ministro, Ehud Barak, ministro della Difesa, e Moshe Yaalon, il vice premier noto come “the brain”, il cervello. Erano i wonder boy dell’unità famosa per il motto “Chi osa vince”, mutuato dalle Sas inglesi. Oggi sono i falchi dello strike contro Teheran. “Eravamo i campioni del mondo, ma è stata una missione costosa perché abbiamo perso Yoni”, dice Sneh al Foglio. “Contro le centrali nucleari iraniane siamo pronti ad agire di nuovo a migliaia di chilometri da casa. Non parliamo di risposta a un attacco: a Israele spetta la prima mossa”. Newsweek rivela che la visita a Washington del capo del Mossad, Tamir Pardo, è servita a saggiare la reazione americana allo strike preventivo contro Teheran. Sabato, su Fox News, il maggiore opinion maker conservatore, Charles Krauthammer, ha scandito chiaro: “Israele farà lo strike per prevenire un secondo Olocausto”. E’ il countdown. Dice Sneh: “Si illude chi crede al cliché secondo cui il programma nucleare iraniano è un problema di cui si occuperà la comunità internazionale, Israele deve essere pronto a fermarlo da solo”. Il generale, a lungo anche viceministro della Difesa, è noto come “l’uomo che ha scoperto l’Iran”, perché fu il primo a sollevare l’allarme sull’atomica iraniana. Sneh sottopose le sue conclusioni all’allora primo ministro, Yitzhak Rabin che, il 26 gennaio 1993, annunciò alla Knesset: “L’Iran è un pericolo strategico per lo stato d’Israele”. Al Foglio, Sneh dice che “il regime iraniano è religioso e fanatico e ha esportato il terrore nel mondo. Al Jihad islamico paga un bonus per ogni israeliano ucciso e l’Iran è responsabile per il bombardamento all’ambasciata israeliana di Buenos Aires. L’Iran ha missili balistici per portare fino all’Europa le testate nucleari. Nella Shoah abbiamo già perso un terzo del popolo ebraico a causa della combinazione di fanatismo e mezzi militari. Non accadrà di nuovo, non ignoreremo chi ci dice ‘vi elimineremo dalla carta geografica’”. Un Iran nucleare darebbe il via al caos atomico. “Israele non può vivere dentro una tenaglia atomica. Se l’Iran avrà il nucleare, anche Arabia Saudita, Egitto e Turchia lo vorranno. Governi islamici con armi atomiche: è l’incubo più grande per Israele e per i suoi figli. Israele è la casa sicura degli ebrei e una grande economia che attrae eccellenza e investimenti. Sotto minaccia atomica, non è più una casa sicura. Sarà la fine d’Israele. Siamo uno stato piccolo e il cuore della nostra economia ruota attorno a Tel Aviv. L’Iran è uno stato grande e meno vulnerabile. Non c’è simmetria o deterrenza fra Iran e Israele. I fanatici religiosi non avranno la bomba”. Per Sneh lo strike è possibile. “Una campagna israeliana contro le installazioni nucleari iraniane li paralizzerebbe per un certo numero di anni. La rappresaglia sarebbe dolorosa per Israele, ma sostenibile”. Ci sono soltanto due modi per fermare l’Iran: “La prima è usare le sanzioni per convincere il regime a rinunciare al programma nucleare. Se non funziona, resta l’attacco militare. Israele non deve sentirsi nell’angolo, perché quando si parla della nostra vita non chiediamo il parere degli Stati Uniti. Significa questo ‘never again’”. E’ anche la lezione di Entebbe. “Raggiungere i nemici ovunque siano. Da allora sono passati quarant’anni, il terrorismo è diventato religioso e satanico nel metodo, ma Israele è di nuovo pronto a colpire a migliaia di chilometri di distanza da casa”.
 (quinto di una serie di articoli. I primi quattro sono usciti il 4, l’8 , il10  e l'11 febbraio e sono disponibili su informazione corretta, oltre che sul Foglio)
LIBERO - Andrea Morigi : " Alle manovre anti-Iran ci siamo anche noi"

Andrea Morigi

In una regione immaginaria, la Costa del Tesoro, un Paese governato da una teocrazia, il Garnet, invade il suo vicino settentrionale, l’Amberland, che invoca un aiuto internazionale per respingere l’at - tacco. Ufficialmente, non c’è alcun riferimento a Stati, fatti o persone realmente esistenti. Sono soltanto le manovre militari che vanno sotto la sigla in codice Bold Alligator 2012. Stanno svolgendosi in questi giorni sulla costa atlantica fra la Virginia, la Carolina del Sud e la Florida e vi partecipano circa 20mila militari americani, oltre a britannici, olandesi, francesi, spagnoli, neozelandesi e australiani. In teoria è un’esercitazione tutta americana. Dove però, indicano fonti statunitensi, si stanno distinguendo particolarmente anche i nostri marò del Battaglione San Marco e il personale di staff della forza anfibia italiana. È uno sbarco in piena regola, con un attacco aereo e 24 navi da guerra, tra cui la portaerei Eisenhower, in appoggio. L’obiettivo è di «rivitalizzare, ridefinire e rinvigorire le capacità anfibie fondamentali e rinforzare il ruolo della Marina e dei corpi dei marines come “combattenti dal mare”». Impiegati nel deserto iracheno e sulle montagne afgane, per circa un decennio i marines sono rimasti fuori dal loro elemento originario, ma il ritiro graduale dai teatri operativi del Medio Oriente ha imposto un ripensamento generale della loro missione. Mentre i corpi speciali tornano alla loro vocazione, su larga scala lo stesso processo di ristrutturazione ha investito nel frattempo anche l’Alleanza Atlantica: ora si punta il mirino sull’Asia. Per i comandi generali impegnati, non è tanto una questione politica. Semmai strategica. E soprattutto tattica. Ci si prepara a combattere insomma. Perciò le uniche indicazioni concrete riguardano la minaccia potenziale sul teatro e sulle acque antistanti: mine, missili anti-nave e battelli. Tutte caratteristiche che, secondo gli analisti militari, sembrano ricalcare molto da vicino il dispiegamento delle forze navali iraniane a difesa del proprio territorio, soprattutto nell’ipotesi di una chiusura da parte iraniana dello Stretto di Hormuz, zona strategica per il passaggio delle petroliere. Nel caso in cui l’approvvigiona - mento energetico si interrompesse per volontà di Teheran, le previsioni di un attacco statunitense si farebbero molto, ma molto concrete. Che le manovre, iniziate lunedì scorso vicino alla base dei marines di Camp Lejeune e pianificate per una durata di dieci giorni, cioè fino al 14 febbraio, fossero puntate in realtà sul Golfo Persico, non è un segreto per nessuno. Perfino l’am - miraglio John Harvey, comandante della flotta statunitense, ammette che il progetto è «certamente ispirato dalla storia recente» senza negare la possibilità di una sua applicazione allo Stretto di Hormuz, così come ad altre aree. E probabilmente anche allo stato maggiore di Teheran ultimamente sono piuttosto frastornati. Altre manovre americane si sono svolte recentemente a poca distanza, sulle isole di Socotra e di Masirah, rispettivamente territori dello Yemen e dell’Oman. Attaccare l’Iran è la tendenza del momento. Israele non è l’unico che sta preparando le proprie forze armate. Ma anche a Washington non scherzano. Un attacco dell’aviazione di Gerusalemme contro gli impianti nucleari iraniani potrebbe essere accompagnata da un’operazione di terra, per neutralizzare la centrale atomica di Bushehr e le vicine basi navali. Quando il presidente Barack Obama ribadisce che «tutte le opzioni », compreso un intervento militare, «rimangono sul tavolo» di fronte al programma di arricchimento dell’uranio iraniano, non sta parlando soltanto di sanzioni economiche. Con la perdita della supremazia economica e dopo che Wall Street non appare più come il maggior centro finanziario del mondo, l’unico primato rimasto agli Stati Uniti, in fondo, è quello militare.

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