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mercoledì 8 febbraio 2012

Storia di un mito...DAGAN

Israele: Meir Dagan, la spia che venne dal freddo

    Meir Dagan, 65 anni, nato in Siberia, a capo del Mossad dal 2002 (Yonathan Weitzman/Reuters)
    Meir Dagan, 65 anni, nato in Siberia, a capo del Mossad dal 2002 (Yonathan Weitzman/Reuters)
    di Pino Buongiorno con Renato Coen - da Gerusalemme
    Da Tel Aviv, aeroporto Ben Gurion, a Roma Fiumicino con un volo El Al, classe economica. Da qui, dopo un’attesa passata a gironzolare fra i duty free shop e il bar-ristorante che prepara panini e pizze, a Dubai con un Boeing 777 della compagnia Emirates. Solo 19 ore all’appuntamento con la preda, fissato per le 20.30 del 19 gennaio, fuso orario degli Emirati Arabi Uniti.
    Sono passati dall’aeroporto Leonardo da Vinci tre membri del commando del Mossad, individuati dalla polizia di Dubai attraverso le telecamere a circuito chiuso dopo l’assassinio di Mahmoud al-Mabhouh, 49 anni, originario del campo profughi di Jabalya, il principale procacciatore di razzi e missili del gruppo Hamas. La polizia italiana ha impiegato non più di mezz’ora per confermare alle autorità degli Emirati la notizia.
    Ma nessuno dei tre ha usato un passaporto italiano. Come pure nessuno degli altri 15 componenti, fra cui due donne, della squadra d’azione denominata Kidon (baionetta), appartenenti alla divisione operativa Cesarea, che, perfettamente truccati, hanno presentato ai servizi di frontiera passaporti britannici (otto), irlandesi, tedeschi e francesi. Al comando di un brigadiere generale del sesto dipartimento del Mossad (quello delle operazioni speciali), si sono divisi in quattro gruppi da quattro. Il primo incaricato di individuare l’obiettivo e di seguirlo passo passo.
    Il secondo di predisporre gli strumenti tecnologici necessari: dall’intercettazione delle telefonate alla copia della chiave elettronica della camera d’albergo. Il terzo delle comunicazioni con sim austriache e il quarto di organizzare la fuga dal luogo del delitto. I due rimanenti agenti della cellula Kidon si sono incaricati di iniettare un potente veleno che ha stroncato il cuore del comandante palestinese, da tempo nel mirino del Mossad per i suoi contatti con i pasdaran iraniani che gli vendevano armi.
    È stata un’esecuzione nello stile del Mossad, secondo gli esperti israeliani e internazionali, contro gli obiettivi di una lunga lista che si rinnova settimana dopo settimana: i capi palestinesi delle organizzazioni estremiste di Hamas e della Jihad islamica, i leader politici e militari del movimento libanese Hezbollah, gli scienziati nucleari iraniani e i generali dei pasdaran o del Mukhabarat siriano (il servizio segreto di Damasco). Mai alcuna ammissione di responsabilità, ma nemmeno un inverosimile diniego.
    Sempre e solo la formula classica: «Non ci sono prove che possano incolpare Israele» come ha ripetuto, un mese dopo l’omicidio, anche il ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman ai colleghi dell’Ue che lo hanno convocato a Bruxelles per protestare contro l’uso di passaporti europei con l’identità rubata a normali cittadini israeliani dalla doppia nazionalità.
    C’è chi crede che la missione a Dubai sia stata un mezzo fallimento perché gli agenti sono stati immortalati dalle telecamere, ma chi si nascondeva davvero dietro quei volti? Qualcuno potrà mai individuare i membri del commando? Nel frattempo, comunque, l’obiettivo è stato eliminato. E gli agenti sono tornati a casa sani e salvi. Ci sarebbe da festeggiare. Tuttavia, chiuso nel suo modesto ufficio nel quartier generale del Mossad, su un colle alla periferia nord di Tel Aviv, Meir Dagan, 65 anni, il decimo direttore nella storia del servizio segreto estero dello stato d’Israele (fondato nel 1948), non ha festeggiato il successo dell’operazione di Dubai. Com’è sua abitudine fin da quando fu nominato nell’agosto del 2002 dal suo mentore, l’ex premier Ariel Sharon.
    Pipa in mano, ha solo alzato lo sguardo verso una vecchia foto in bianco e nero che campeggia dietro la scrivania. È quella di suo nonno, ebreo russo, rinchiuso in un campo di concentramento, sotto la minaccia di un fucile puntato da un ufficiale delle Ss. «Dobbiamo essere forti, usare il cervello e difendere noi stessi in modo tale che l’Olocausto non si possa mai più ripetere» ha giurato per l’ennesima volta, secondo quello che riferiscono i collaboratori più fidati.
    In Israele, per la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica, Dagan, di cui si conoscono tre passioni (la cucina italiana, la pittura e la lotta mortale contro i terroristi), è un eroe: «l’uomo con il coltello fra i denti» secondo la definizione affibbiatagli dal suo ex compagno d’armi Sharon. Pochi osano criticarlo per i metodi brutali che continua a usare e che, di volta in volta, provocano contraccolpi diplomatici al governo di Gerusalemme. Ma nessuno dei primi ministri che si sono succeduti (da Sharon a Ehud Olmert, fino a Benjamin Netanyahu) lo ha mai contraddetto. Lo stesso Netanyahu ha avallato, secondo la prassi consolidata, la campagna di omicidi mirati rinnovando ancora l’incarico a Dagan, che si avvia a battere tutti i record di permanenza al vertice del Mossad.
    Chi lo conosce bene, come Yossi Melman, l’esperto di sicurezza nazionale del quotidiano Haaretz, tenta invece di sfatare il mito: «Dagan non è assolutamente un superman o un assassino impietoso» dichiara il giornalista israeliano a Panorama. «È un uomo assolutamente normale. Anzi, è alquanto banale e non è nemmeno un genio dei servizi segreti. È certamente vero che è un tipo duro e molto creativo. Ma non ha rivoluzionato il Mossad: ha impiegato ben tre anni per capire bene come dovesse agire e per abituarsi a comandare una macchina così imponente. Poi è riuscito a passare all’azione ottenendo anche ottimi risultati».
    È uno di quei boss che o si amano o si detestano. Sotto la sua direzione 200 fra alti funzionari (tra cui il numero due dell’agenzia spionistica) e semplici agenti operativi (katsas) si sono dimessi per incompatibilità di carattere. Di contro, tutti gli altri 1.200, di cui un terzo donne, alle sue dipendenze lo venerano pur sapendo di dover dare molto e pretendere assai poco. L’unico metro di giudizio è l’efficienza. «Da quando dirige l’istituzione, Dagan ha rinnovato l’aura che circonda il Mossad in tutto il Medio Oriente» ha detto di lui Alon Ben David, un ex analista dell’intelligence israeliana, commentando alla radio militare le ultime imprese.
    In questi ultimi otto anni non ci sono stati clamorosi fallimenti, come quello che provocò le dimissioni del maggiore generale Danny Yatom nel 1997 dopo il tentato omicidio di un altro obiettivo eccellente: il capo politico di Hamas, Khaled Meshaal, avvelenato ad Amman da due «baionette» israeliane, poi catturate dalla polizia giordana. In cambio della loro liberazione, una donna del Mossad volò nella capitale della Giordania per iniettare a Meshaal l’antidoto. Né c’è stato l’immobilismo operativo che ha caratterizzato la gestione del «British» Ephraim Halevy (1998-2002), il quale prediligeva l’intelligence alle operazioni sporche e i cocktail degli ambasciatori alle attività clandestine.
    Il siberiano Meir Dagan, nato nella glaciale Novosibirsk, ha cominciato a reclutare meno analisti e più uomini di mano, di diverse nazionalità, che sono stati infiltrati nei paesi più difficili, come la Siria, secondo il modello delle unità delle forze armate Duvdevanim (ciliegie), costituite su impulso anche di Dagan, 20 anni fa, quando era un generale dell’esercito.
    La sua prima operazione nota è quella che nel settembre 2007 portò alla distruzione del sito nucleare siriano di Deir al-Zour, sulla base di informazioni raccolte da infiltrati del Mossad. Quella più spettacolare è avvenuta nel febbraio 2008 con la decapitazione (nel senso letterale del termine) del comandante in capo dell’ala militare di Hezbollah, Imad Mughniyeh, ucciso dall’esplosione del suo suv Pajero in piena Damasco, all’uscita dal quartier generale dei servizi segreti. Nemmeno sei mesi dopo, un’altra cellula Kidon, venuta dal mare, ha colpito al cuore l’establishment militare siriano.
    Il generale Mohammed Suleiman, considerato il punto di raccordo con il programma nucleare nordcoreano e siriano, si stava rilassando nel giardino della sua villa in riva al Mediterraneo quando è stato ammazzato da un cecchino a bordo di uno yacht che veleggiava di fronte alla residenza.
    Le missioni ad alto rischio non hanno mai scoraggiato Dagan. Da quando il governo israeliano gli ha dato come compito principale quello di ritardare la costruzione della bomba atomica dell’Iran i delitti misteriosi, i rapimenti, le fughe e i sabotaggi a Teheran si susseguono con micidiale determinazione. Nel febbraio 2007 è stato soffocato dal gas, mentre dormiva nel suo letto nella capitale iraniana, il fisico nucleare Ardeshire Hassanpour. Il 12 gennaio di quest’anno un altro scienziato atomico, Massoud Ali Mohammad, è saltato in aria davanti alla sua abitazione. Altri generali dei pasdaran sono morti in circostanze mai accertate a bordo di pulmini o di elicotteri esplosi.
    Non meno puntuali sono stati i colpi messi a segno in Svizzera e in Germania, dove gli 007 del Mossad, con la collaborazione della Cia, hanno agganciato trafficanti di armi e li hanno convinti a sabotare le spedizioni di materiali ultrasofisticati destinati ai progetti nucleari degli ayatollah. «Così gli iraniani hanno perso almeno un paio di anni nella costruzione della bomba» calcola un ispettore dell’agenzia atomica di Vienna.
    Per Dagan è ancora poco. Gli occhi impauriti del nonno che vigila alle sue spalle continuano a ricordargli un altro tipo di Olocausto e un’altra generazione di Adolf Hitler.
    • FONTE:Da un aricolo di Mercoledì 3 Marzo 2010http://blog.panorama.it/mondo/2010/03/03/israele-meir-dagan-la-spia-che-venne-dal-freddo/

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